Ho una personalissima bibliografia portatile da viaggio (sulla rotta Ischia-Napoli e al contrario) che abita nella mia borsa, tra penne e matite: sono libri di medio-piccolo formato, li divoro rapidamente per curiosa passione, per ovviare alla routine del moto ondoso. Spazzano via l’afasia in caso di noia in agguato.
Ogni vitigno piantato, quando germoglia, è un inno alla gioia. È come una sveglia filogenetica. Fa vibrare. Ti fa venire ‘u fridde ncuollo. Ci riconduce alle radici, ci spiega chi siamo. Sintetizza la nostra evoluzione. Almeno dovrebbe.
Mi sono dimenticato ancora una volta di chiedere perché il ristorante «Duilio» si chiama così. Potrei immaginare che il locale sia stato dedicato a un pugile molto famoso negli Anni Cinquanta e inizio Sessanta, Duilio Loi, del quale ricordo perfettamente la faccia filmica e la postura fotogenica, leggermente ingobbita nelle figurine dei «Campioni dello Sport» della Panini.
Il sentiero che sale dall’Arenella non è lungo, né troppo accidentato. Zompo rapido tra parracine di pietre laviche dell’Arso, rocce nere compatte che hanno compiuto 720 anni.
Quando torno sulla terrazza del «Miramare e Castello», albergo che ha nel nome la sintesi apologetica del bello made in Ischia, immagino puntualmente di essere ospite sul ponte di uno yacht di lusso… poi sorrido e penso che la barca migliore è quella dell’amico. Eh!
«Bubbessa». Vi dice niente? È una parola femminile. Ma è nata come un soprannome maschile, trasformato poi in un ampio appellativo familiare che ha il sapore e il potere del mare.
Mettiamola così, per cominciare: «La donna è un’isola». È una affermazione apodittica ed è il titolo in italiano di un bel lavoro, originale e a tratti bizzarro della scrittrice islandese Auður Ava Ólafsdóttir, una… isolana molto apprezzata tra Francia e Canada.
A volte avverto l’impulso di rivendicare l’autarchica genesi di questo spazio, non per ribellarmi alla (presunta) dittatura delle convenzioni, ma per giustificare le scelte più intime. Ci sono emozioni così struggenti e potenti, più alte delle onde gigantesche e indomabili che ho visto formarsi d’incanto lungo la costa oceanica di Nazaré in Portogallo, dalle quali o scappi via di corsa o ti impegni formidabilmente a controllarle, rendendole pubbliche. Provo la seconda chance.
Il mio amico Marco Cortese, architetto, fotografo, designer e creativo ha deciso - da un po’ di tempo in qua – di lasciarci una traccia identificativa del suo multiforme percorso stilistico.
Vi propongo qualcosa d’inedito e risalente a qualche tempo fa: è un microracconto in più episodi legati tra loro dalla passione per il vino e non solo. Non ho mai avuto un diario. Dunque lo scrivo apposta. E con una prima parte d’oltre confine, d’oltre cortina. Può darsi che ci sia il rischio di scivolare sulle pareti della nostalgia cruda e delle digressioni ellittiche. Ma è sopportabile. A me diverte. Perché non mancano le coincidenze davvero portentose.
Stavolta sembro fuori contesto. Apparentemente. Recupero una «cosa» di qualche anno fa perché l’ultimo dei due protagonisti di questa storia se n’è andato in questo novembre del Venti Venti per colpa dell’amore per la sua gente: don Angelo Iacono, sacerdote. Ha raggiunto la sorella Pierina, neppure troppo tempo dopo di lei. Con loro questa storia è finita. Oppure no? Per ora ve la ripropongo nel modo in cui la raccontai. Con dedica.
Ueee, cos’è questo, miele? Sì, miele. Ma questo è un po’ diverso: è libero, è selvatico. Ed è proporzionale. Ma come? Te lo spiego: è proporzionale al paesaggio che lo contiene. Meno bellezza vedi in giro, meno miele avrai… Fatti un po’ di calcoli, fai pure una ideale circumnavigazione.
È un soffio vorticoso, vibrante ma morbido e nobile, ritmato, e non è un rumore banale: arriva dalla cucina, è il suono delle uova appena sgusciate e poi battute rapidamente da mamma Iolanda. Ed è una danza aperitiva, il segnale per papille e pupille: «Rosà, stanno preparando le mozzarelle in carrozza per noi!». Un bagliore soddisfatto s’impossessa dello sguardo di Rosanna.
Ehi, lo sapevi che, quando li coltivi in alto, molto in alto, ai pomodori col pizzo non devi far vedere l’acqua? Non m’importa cosa facciano altrove i contadini, ad esempio sulle dorsali vesuviane: garantisco per ciò che conosco della prassi agricola, abituale sulla vetta ischitana, l’Epomeo, che è abbracciato da vigneti, frutteti e orti galattici.
Fotografo la bottiglia di «Castello» stappata da un bel po’, ormai in tarda serata, poggiandola sul parapetto che dà le spalle alla maestosa cupola della Chiesa dell’Immacolata.
Le variazioni sul tema sono infinite. Farine e nuvole; semole, panetti e grammi; lieviti madri e padri, e lievitazioni lunghe o farlocche; paste cresciute o screscitate; forni, a legna, a gas, elettrici; e poi, leggerezza, umidità ed elasticità; pioggia, sale e sole… E, ancora, basse e alte; condimenti e topping, imbottiture, cornicioni, canotti, fritture, mozzarelle e… fregature.
Eh, lo so, con questo titolo rischio la blasfemia. Sarò pure irriverente, ma mi stuzzica evocare una delle leggende ischitane più famose
Conigli di qua e conigli di là. Si fa presto a dire «coniglio all’ischitana», piatto totemico, ricetta identitaria. Alla prova – in trattoria o ristorante - le delusioni superano ampiamente le soddisfazioni.