Stavolta sembro fuori contesto. Apparentemente. Recupero una «cosa» di qualche anno fa perché l’ultimo dei due protagonisti di questa storia se n’è andato in questo novembre del Venti Venti per colpa dell’amore per la sua gente: don Angelo Iacono, sacerdote. Ha raggiunto la sorella Pierina, neppure troppo tempo dopo di lei. Con loro questa storia è finita. Oppure no? Per ora ve la ripropongo nel modo in cui la raccontai. Con dedica.
A Pierina e don Angelo Iacono
«La terra è satura di schifezze, e la natura si è ribellata. Bisogna tornare ai vecchi sistemi di lavoro, nel senso che nella terra bisogna andarci con una mentalità nuova, anzi con il rispetto di una volta». Quando c’incontriamo in cantina, puntualmente gli amici – succhiandosi le dita bisunte dopo aver addentato l’ultimo ‘mbrugliatiello i coniglio - m’implorano di convincermi che «non bisogna mollare». Lo ripetono brindando. Ma non sono sprovveduti. Sono indignati, ma se lo tengono per sé. Guardano con sospetto ai nuovi oltraggi, alle lobby in agguato, d’indebitati e sterili, che predano le idee, che fanno roteare il machete per accaparrarsi gli spicchi di paesaggio che, intanto, mandano segnali d’aiuto. L’ultima volta, a tavola, in una tavolata mista, tra donne, uomini, ci siamo contesi gli scagliuozzi di farina rossa: assaggi evocativi. Nel frattempo, una fredda nube temporalesca stava avvolgendo la notte del nostro rifugio. Un’atmosfera invernale, ideale per raccontarci che ci sono donne e uomini che ancora si arrampicano tra le schiappe, le terrazze sorrette dalle parracine, con le forbici per la potatura; e zompano giù dai puoje, i poggi meridionali, i terrapieni che modulano i pendii con le loro pance argillose e inerbate, non puntellate da cantoni. Eccoli, i miei amici, non sono vecchi. E, se l’età è già avanti, comunque non sono invecchiati precocemente. Accarezzano le catene zappate con la leggerezza di chi sa amare la fertilità, come la generatrice di ogni bene. «Il bene non è una chiacchiera», insistono. E non può essere ridotto a ingordigia - alla roba avida di sé da cui il baffuto Giovanni Verga stillò fuori il sangue romanzesco del cosiddetto Verismo - al punto da ingravidarla promiscuamente. «Si sposavano in famiglia, tra consanguinei, per non dividere la proprietà, per non spartirla, disperderla tra indesiderabili eredi». Ci fissiamo negli occhi. Questo è accaduto in un tempo che, non soltanto a Ischia, è piuttosto vicino. Tempo di tempeste, testimonianze e testamenti. «Non più», ripete chi condivide la mia eco che intravede dell’altro, in un Tempo “altro”.
Il 31 dicembre del 2009 quel
Tempo si è fermato sulle colline di
Serrara, vigilate dall’Epomeo con i suoi massi sparsi in bilico. L’ho incontrato ben prima di mezzogiorno. Almeno così mi pareva, perché il sole non si era ancora impadronito di tutto lo sguardo. Mio e di Angelo, anzi
don Angelo Iacono, il sacerdote… che mi aspettava da settimane.
Per non mancare all’appuntamento mi infilai in un vicoletto sull’erta che conduce ai pianori obliqui. Fanno da spalla, a occidente, al cuneo di Kalimera, tra piccoli insediamenti che dominano linee di costa da Sant’Angelo ai Maronti, in un rincorrersi di scorci, stratificazioni secolari e profumi di erbe aromatiche e curative che, da lì, non si sono mai mosse. Ne sono convinto.
È qui che abita il Tempo di una vita diversa, che sfida i giorni percossi dal rumore della bruta cronologia. Ho zittito, quella mattina, il countdown interiore del calendario. Certo, il fatto che avessi accolto quell’invito accorato a ritrovare le emozioni profonde nella natura santificata dagli ischitani, proprio nell’ultimo giorno dell’anno, qualche spruzzo di straniamento me l’aveva gettato sugli occhi. Ma era come una umida euforia a fior di pelle.
Da quel giorno ho memorizzato l’appello a non dimenticare le alte origini di allevatori di pecore e vignaioli; e di coltivatori di grano
«carusella» che, grazie alle spighe con il ciuffo un po’ glabro, dunque
caruso, reinserisce le avventure alimentari isolane nell’ampio emisfero degli incroci e degli incontri avvenuti chissà quando. Quel grano è sbarcato – giusto: chissà quando? – sull’isola, e con buona probabilità era proveniente dal
Cilento Vecchio, dall’areale interno della fascia che sconfina sulle piattaforme litoranee di
Acciaroli fino a
Pioppi, che è poi il paesino dove il notissimo medico alleato-americano Ancel Keys inventò la
Dieta Mediterranea, nel Dopoguerra. Coincidenze interessanti.
E qui, sempre a Serrara, mi sono piegato alla volontà dei radunatori inchinati a una
cicoria, o a una
bieta che ti mangi con gli occhi, per come è bella; non lontano dalle pannocchie di mais, un mais “vero” neppure sfiorato dai soffi di una possibile mutazione pilotata.
M’infilai in un concentrato di resistenze alle trasformazioni oscene, proprie di una modernità fuori luogo. E però suggestivamente quella rarefatta e sospesa dimensione salutava l’arrivo dell’anno nuovo. Di tutti gli anni nuovi lontani mille miglia dal tourbillon del Capodanno festaiolo e turistico.
Quel saluto fu affidato al cibo più autentico, simbolico e concreto: il pane. Un pane che s’impasta con il lievito madre – il criscito – che è conservato e si tramanda da generazioni, nello stesso posto e dalle stesse mani.
Pierina Iacono - aveva 76 anni quando l’incontrai - non si è sposata, e vive con il fratello Angelo di cinque anni più giovane, parroco della
chiesa del Ciglio. Entrambi hanno ricevuto dalla mamma Lucia - che è vissuta fino all’età di 97 anni - quel lievito dell’identità. E continuano a lavorarlo, a trasformarlo in pagnotte, a infornarlo. Sempre con lo stesso rituale.
«Mi sono svegliata alle cinque del mattino – mi spiegava Pierina – e ho preparato l’impasto con la farina di granone spezzato, che coltivo io, e il finocchietto selvatico raccolto nelle zone impervie. Poi ho lavorato le forme e le ho messe a riposare nella “mattera” di legno. Ho scaldato il vecchio forno con i “pennicilli”, ovvero con i tralci secchi delle viti. Prima dell’infornata, ho fatto la pizza con l’aglio, l’origano, tutto di nostra produzione, e i funghi chiodini cresciuti vicino a un ceppo dell’orto. Li ho messi da parte con l’olio e il peperoncino».
La pizza? Unica. Straordinaria.
«Faccio tutto da sola, come gli antichi anticorium», aggiungeva Pierina, con una battuta che storpiava un po’ il latino, ma conferisce tuttora una forza incredibile alla storia.
Dopo un paio d’ore era pronto anche il pane.
«Mi accorgo che è ormai cotto, toccando la porta del forno, ricavata da un pezzo di solaio in lapillo battuto».
Dorate, magnifiche, pagnotte.
«Le puoi tenere in dispensa tranquillamente per quattro settimane», sussurrava don Angelo, come se mi stesse confessando.
«Ma lo hai provato, questo pane, inzuppato nel vino?», incalzava Pierina.
Fotogrammi dal passato.
«Tutto ciò è destinato a finire», ricordava don Angelo con un sorriso.
Ma Pierina non lo ascoltò. Allora come oggi. Mentre, nel forno ancora caldo, infila con rapidi gesti un bel po’ di nocciole. Uno snack da sgranocchiare, brindando al domani.
(Testo originale del 2015 - tratto dal mio libro “Mille orti in mezzo al mare” - Ad Est dell’Equatore editore)
___