Luogo mistico e centro di fervida religiosità, dove vissero e si formarono ben dodici tra Santi e Beati. Ma anche formidabile potenza economica con proprietà in tutto il Sud della Penisola e interessi commerciali da una sponda all’altra del Mediterraneo.
Tutto questo è stata l’Abbazia della Santissima Trinità nei suoi mille anni di storia, iniziati da una grotta, alle falde del Monte Finestra, nella catena dei Monti Lattari.

Un antro a 350 metri di altezza, tra una fitta vegetazione, dove giungeva il mormorio del torrente Selano e il clima dolce della vicina Costiera Amalfitana. Un luogo di pace e di meditazione, scelto dal monaco Alferio, forse appartenente alla nobile famiglia salernitana dei Pappacarbone, già ambasciatore del principe longobardo Guaimario III, quando, una volta tornato in Italia dalla grande abbazia benedettina di Cluny, dove aveva preso i voti ed era stato ordinato sacerdote, e dopo essersi preso cura dei monasteri salernitani, decise di ritirarsi dal mondo. Era il 1011 e la grotta Arsicia divenne il suo rifugio. Lì il carisma del monaco attirò ben presto schiere di fedeli e giovani desiderosi di dedicarsi alla vita meditativa. E dunque Alferio, per accoglierli, vi costruì un monastero, ovvero la nuova badia di Cava. Che comprendeva anche una chiesa, ultimata nel 1025. Lui, invece, continuò a vivere nella grotta, dove la morte lo colse a 120 anni, il 12 aprile 1050, e dove venne sepolto, già in odore di santità. Non molto dopo fu proclamato Santo.

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Il potere crescente dell’abbazia

Il primo di un folto gruppo. Nei due secoli che seguirono, ben undici dei suoi successori abati assursero agli onori degli altari. E tra i monaci[DC1]  della badia all’epoca di Alferio vi fu anche Desiderio, il famoso abate di Montecassino che divenne Papa come Vittore III. Un nipote del fondatore, poi divenuto San Pietro I, da abate diede grande impulso all’abbazia, ampliandola e creando una grande congregazione, da cui dipendevano numerosi monasteri e chiese non solo nei territori più prossimi, ma in varie zone del Mezzogiorno. Sotto l’abate Pietro furono consacrati più di tremila monaci e Papa Urbano II, che lo aveva conosciuto a Cluny, visitò il monastero di Cava nel 1092 e ne consacrò la nuova chiesa come basilica.

La crescita dell’abbazia della Santissima Trinità proseguì costantemente anche con gli abati successivi che coltivarono rapporti sempre più stretti con i potenti del tempo. Papi e vescovi, come pure signori e principi longobardi, e in seguito normanni, affidarono all’abbazia cavense feudi, proprietà e diritti di patronato su diverse chiese. Con Federico II la badia ottenne il privilegio dell’esenzione, in virtù del quale l’abate di Cava dipendeva solo dal Papa per la giurisdizione spirituale sulle terre e le proprietà. E per volontà papale, furono confinati al sicuro a Cava gli antipapi Silvestro III e Gregorio VIII che vi morì nel 1137.

Nella gestione del patrimonio, gli abati, eletti a vita, usavano assegnare le terre alle popolazioni locali con l’obbligo di metterle a coltura, richiedendo dopo qualche anno mano d’opera o censo in proporzione alla fertilità dei diversi terreni. A tutela delle popolazioni dei loro feudi, organizzarono ospizi e ospedali. E per difendere gli abitanti delle aree costiere soggette agli attacchi barbareschi, San Costabile e il Beato Simone edificarono il Castello dell’Angelo, poi divenuto Castellabate. Ovviamente, si occupavano del ministero pastorale nei monasteri dipendenti e della scelta dei sacerdoti a cui affidare le chiese nell’orbita della badia.

La nuova Diocesi di Cava e la Cattedrale nell’abbazia

Nel Trecento si affievolì la spinta spirituale dei primi secoli e l’attenzione si spostò sui beni materiali e sulla gestione delle proprietà terriere. In quella fase, l’abbazia fu abbellita con splendide opere d’arte. Nel 1394 il papa Bonifacio IX conferì il titolo di città alla Terra di Cava, elevandola a Diocesi autonoma con il vescovo residente nella badia, che divenne la Cattedrale di Cava. Il quel periodo, il monastero era guidato da un priore e la comunità dei monaci costituiva il Capitolo della Cattedrale. Monsignor Angelotto Fusco, eletto cardinale senza lasciare il ruolo di priore, trasformò abbazia e Diocesi in commenda e commendatari furono anche i suoi successori. Questo provocò una fase di decadenza, perché il monastero, governato da fiduciari lontani, vide ridurre drasticamente il numero dei monaci, che potevano contare su pochi mezzi di sussistenza. Una svolta arrivò grazie all’ultimo commendatario, Oliviero Carafa, che fece aggregare la badia alla Congregazione di Santa Giustina da Padova, la cosiddetta Congregazione Cassinense. La riforma restituì alla badia un abate, ripristinando la disciplina monastica e il culto delle scienze e delle arti. Il Seicento vide rifiorire la dimensione religiosa, ma anche la cura per l’abbazia, che tra il XVI e il XVIII secolo conobbe un’ampia ristrutturazione. L’abate Giulio De Palma ricostruì la chiesa e il seminario, parti del monastero e il noviziato.cava dei tirreni 02

A seguito della soppressione napoleonica degli ordini religiosi, l’abbazia divenuta Stabilimento fu custodita dagli ultimi venticinque monaci e dall’abate don Carlo Mazzacane in qualità di direttore. Con la Restaurazione, da Cava partì una missione in Australia, che portò alla fondazione di un’altra Abbazia della Santissima Trinità a Nuova Norcia. Nel 1866 la definitiva soppressione degli ordini religiosi non ebbe particolari conseguenze sulla badia, che fu riconosciuta e tutelata come monumento nazionale. I pochi monaci rimasti istituirono un collegio laicale e si dedicarono a redigere il famoso Codex DiplomaticusCavensi in cui pubblicarono integralmente il contenuto delle più antiche pergamene dell’archivio. Un’opera preziosissima di preservazione del patrimonio storico-culturale che ha reso famosa nel mondo la badia, dove furono accolti illustri studiosi. Intanto il monastero fu adibito a scuola, dapprima come liceo classico, poi accogliendo ogni ordine di studio fino agli anni Duemila. La tutela del patrimonio tramandato nel tempo è stata coronata negli ultimi decenni dal progressivo restauro dell’importante complesso abbaziale.

La chiesa dell’abbazia

La chiesa originaria di Sant’Alferio, ultimata nel 1025, contava una sola navata. La trasformazione iniziò nel 1096, ad opera di Pietro I abate, e portò ad un ampliamento dell’edificio sacro, a tre navate. L’attuale conformazione risale al 1761, sotto l’abate Giulio De Palma e su disegno dell’architetto Giovanni Del Gaiso, a cui va attribuita anche l’attuale facciata. Per fare spazio alla chiesa nuova, fu abbattuta quella più antica, di cui rimase solo la cappella dei Santissimi Padri. Dalla chiesa antica proviene il magnifico ambone cosmatesco del XII secolo, recentemente ricostruito. Si tratta, forse, di un dono di re Ruggero II, che volle seppellire la seconda moglie Sibilla nella basilica, facendo erigere per lei una tomba coperta di mosaici di cui ci è giunto solo il sarcofago. In fondo alla navata destra, è collocata la Cappella dei Santissimi Padri ristrutturata e rivestita di marmi policromi nel 1641. Prima della cappella e dopo la balaustra, s’incontrano quattro statue cinquecentesche, le più antiche delle quali sono dedicate a San Matteo e Santa Felicita. Nella basilica è inglobata la cella nella grotta di Sant’Alferio, il cui corpo si trova sotto l’altare a sinistra. Anche nell’altare di San Leone vi sono varie reliquie di santi, mentre l’urna con le reliquie di San Costabile è di fronte all’ altare del Santissimo Sacramento.

Gli affreschi della basilica, del 1857, sono opera del pittore calabrese Vincenzo Morani. Si distinguono Sant’Alferio in contemplazione della Ss. Trinità sulla volta del coro e L’Adorazione del Redentore nella cupola. Nel transetto a destra si ammira La morte di San Benedetto con numerosi Santi benedettini e a sinistra La Resurrezione con profeti e apostoli.  L’affresco più pregevole è la Deposizione dalla Croce sull’altare del transetto a sinistra. Sul primo altare a destra dell’ingresso si nota un quadro raffigurante San Mauro di Achille Guerra. La porta del Battistero è del XVI secolo come il portale marmoreo e la porta della sagrestia. Nei dodici altari della basilica sono le reliquie dei dodici abati santi e beati.


Gli altri ambienti del percorso di visita

Dalla sagrestia si raggiungono le due cappelle dell’antica basilica. Sui due altari sono presenti importanti sculture di Tino da Camaino, commissionategli dall’abate Filippo de Haya che, come consigliere del re, poté ottenere che il grande artista lavorasse a Cava. Degni di nota, il  paliotto dell’XI secolo nell’altare maggiore della basilica di Urbano II e, a sinistra, un portale marmoreo del XV secolo con la porta intarsiata del XVI secolo.

La Sala del Capitolo occupa lo spazio della sagrestia prima del 1761. Di pregevole fattura sono gli schienali di legno intagliati del 1540 e gli affreschi del 1632, che raffigurano San Benedetto con Sant’Alferio e altri fondatori di congregazioni benedettini. Un vero gioiello è il pavimento quattrocentesco di riggiole decorate dal monastero di Sant’Andrea delle Dame a Napoli.

Tra la grotta Arsicia e il ruscello Selano è collocato il chiostro, di dimensioni abbastanza ridotte, che conserva l’atmosfera suggestiva del complesso originario risalente all’XI-XIII secolo. Nell’interno della grotta abitato da Sant’Alferio è evidente un muro romano. Il rinvenimento della scultura di un fauno suggerisce l’ipotesi che potesse trattarsi di un luogo di culto da molto prima che vi si insediasse il Santo medievale. Ci sono anche alcuni sarcofagi romani del III d.C. in cui furono sepolti illustri personaggi.

Straordinaria è la biblioteca, che conta ben 80mila volumi, compresi preziosi incunaboli e cinquecentine. Nelle tre sale sono custoditi testi su Patristica, Teologia, Diritto e Storia. Ancora più famoso e prezioso è l’Archivio, ordinato in due sale dalla fine del Settecento. Vi sono raccolti documenti fondamentali per la storia del complesso monastico e dei territori in cui si è ramificato nella sua storia. Ben 15mila pergamene di cui la più antica risale al 792 e tanti documenti cartacei. Tra i codici più importanti, si trovano una Bibbia visigota del IX secolo, il Codex Legum Langobardorum del secolo XI, le Etimologiae di Isidoro dell’VIII secolo e il De Temporibus del Venerabile Beda dell’ XI secolo, su cui i monaci annotavano regolarmente gli avvenimenti più importanti della badia e del mondo di allora. Le note sono conosciute come Annales Cavensis..

Dopo la Seconda Guerra Mondiale fu ritrovata fortunosamente un’ampia sala del XIII secolo, di cui è stata rifatta la volta, ma tutto il resto è originale.

La sede del Museo era parte di un palazzo distinto dal monastero e usato come foresteria. Vi si trovano le opere d’arte della badia. Nei sotterranei della badia, del chiostrino e nelle adiacenze c’era il cimitero di monaci e dei secolari. Sotto la basilica insistono le fondamenta della piccola chiesa di Sant’Alferio, che si presentano come un lungo corridoio diviso in tre vani: il primo è la Cappella di San Germano del XIII. Ornata con affreschi del XV e XVI secolo di Andrea da Salerno, salvati e sistemati nella sala del capitolo antico. Una serie di arcate grigie, forse ospitavano i sepolcri più illustri. Sotto uno degli archi trilobato è sepolto Costanzo Punzi, tesoriere di re Roberto d’Angiò nel 1338. Sotto il chiostrino sono evidenti strutture del IX e del XIII secolo.