Una mezzaluna verde nell’azzurro intenso del mare. Così appare Vivara dall’alto e dal promontorio di Santa Margherita vecchia, a Procida, nel punto più vicino tra le due isole. Unite per volontà umana oggi così come all’origine le aveva collegate la forza creatrice della terra. Perché c’è stato un tempo in cui Vivara e Procida erano una cosa sola. Frutto del cratere formatosi 55mila anni fa nella parte sud-occidentale dell’isola, che già altri fenomeni vulcanici avevano modellato. Le vicende geologiche successive avrebbero isolato dall’isola grande quel frammento che, tuttavia, conserva nella sua conformazione l’impronta dell’origine. Inequivocabile, tanto più osservando la continuità delle forme con la parte procidana del cerchio dell’antico cratere, ormai occupato dal mare e noto come golfo di Gènito.

Ad unire Procida alla sua parte separata provvede per 362 metri di lunghezza il ponte dell’acquedotto, che rivela dal nome la sua particolarissima funzione: sostenere la condotta idrica che porta l’acqua dalla terraferma a Ischia, passando sopra terra per Procida e Vivara. Un percorso pedonale sospesi sul mare, tanto ricco di suggestioni quanto prodigo di scorci panoramici. Fino all’arrivo a Punta Capitello, nella parte settentrionale di Vivara. Alla fine del ponte si sale per una rampa di gradini, costruiti per accogliere la principessa Maria Josè di Savoia, quando volle visitare l’isolotto nel 1930. Da lì inizia il lungo sentiero che attraversa Vivara da Punta Capitello, a nord-est, a Punta Mezzogiorno, dalla parte opposta, a sud –est. 

Vasta circa 35 ettari, con un perimetro di tre chilometri e un’altezza massima di 109 metri, Vivara ha coste piuttosto alte e, in vari tratti, decisamente ripide, per cui non è accessibile dal mare. Lo sapevano bene anche gli antichi marinai che sperimentavano nuove rotte nel Mediterraneo, alla ricerca di scali utili alla navigazione e ai commerci. Non aveva spiagge, quel territorio ancora collegato a Procida da una falesia, ma la sua posizione rispetto a Ischia e nel grande golfo era troppo favorevole per rinunciarvi. E i Micenei nel XVI secolo a.C ne fecero il loro scalo più settentrionale nel Tirreno, parte integrante della rete di insediamenti che avevano già attivato in Sicilia e alle Eolie.

DAI MICENEI AI BORBONE 

Fu l’archeologo Giorgio Bucher nel 1937 a identificare per primo tracce e reperti della presenza minoica a Punta Capitello, in contemporanea con i ritrovamenti sulla dirimpettaia Ischia, nel sito del Castiglione. Nuove campagne di scavo, a partire dal 1976, riportarono alla luce tre insediamenti a Punta Capitello a nord, a Punta Mezzogiorno a sud e a Punta d’Alaca, a occidente, dov’è  il punto più stretto del canale d’Ischia e dove vi era anche una possibilità di approdo. I ritrovamenti hanno dimostrato che i Micenei intrattennero rapporti pacifici con gli indigeni, con i quali si verificò un fruttuoso scambio culturale e tecnico. Di quella fase sono stati ritrovati ceramiche importate, simili a quelle di produzione egea del XVI secolo, oggetti in argilla locale lavorati al tornio di tradizione micenea e oggetti di metalli sicuramente importati, ma lavorati sul posto.  Due secoli dopo, nel XIV secolo, gli scali tirrenici persero d’interesse per i Micenei, che avevano spostato la loro area d’influenza tra Adriatico e Ionio, per cui lasciarono completamente gli insediamenti procidani. 

Peraltro, le risorse ambientali in esaurimento, una pianura coltivabile ridottissima e la mancanza di vene d’acqua che caratterizzavano i siti di Vivara, accelerarono il processo. 

Quel nome, poi, Vivara, comparve parecchi secoli dopo, mutuato probabilmente dall’allevamento di pesci che i Romani inaugurarono nel piccolo golfo di Gènito, Da quel Vivarium si arrivò con adattamenti successivi al toponimo attuale. A terra, invece, i Romani cominciarono a utilizzare quell’area verde propaggine di Procida come oasi di caccia. E tale rimase anche in seguito. Fu Alfonso d’Avalos, nel Cinquecento, a introdurre nell’isolotto varie specie animali a scopo venatorio, come continuarono a fare tutti i signori successivi, che frequentavano Vivara e la stessa Procida per le loro battute di caccia. L’unico edificio residenziale fu costruito nel 1681 da Giovanni de Guevara, dal cui nome, secondo un’altra ipotesi, sarebbe derivato quello di Vivara. Quella struttura divenne successivamente casino di caccia dei Borbone. Nel periodo napoleonico, l’isolotto fu utilizzato come avamposto militare sul mare e risalgono ad allora le fortificazioni ancora visibili, prima che nel 1818 fosse trasferito dal demanio militare al Comune. 

L’OASI NATURALISTICA

Nel 1940 Vivara venne privatizzata. Ma la sua valenza ambientale fu riconosciuta ufficialmente nel 1974, quando diventò oasi naturalistica protetta. Dopo varie e complesse vicissitudini, per l’impegno delle associazioni ambientaliste, in tempi recenti Vivara, completamente disabitata e dichiarata riserva naturale statale, è stata presa in affitto dalla Regione, come luogo di ricerca e di osservazione naturalistica. Il suo mare, ricco di biodiversità, è parte dell’Area Marina Protetta Regno di Nettuno.

Un territorio completamente coperto da fitti boschi di querce. Lecci soprattutto e roverelle. Così appariva Vivara quando era ancora una propaggine di Procida e anche dopo essere diventata una terra interamente circondata dal mare. Di quella enorme lecceta non restano che poche macchie sul versante orientale, dove ai lecci si accompagnano anche roverelle e ornielli. Se già gli antichi abitanti avevano iniziato a convertire alcune aree all’agricoltura, il disboscamento su larga scala, che cambiò volto all’isolotto, si consumò intorno al 1830, quando la foresta fu sacrificata a nuovi impianti di viti e ulivi. Ben tremila furono gli ulivi messi a dimora in quegli anni, mentre nuove estensioni di terreno venivano dedicate ad altre coltivazioni. A testimoniare la “mutazione” agricola di Vivara resta, al centro dell’isolotto, la casa colonica, proprio di fianco alla residenza padronale utilizzata anche dal re durante le battute di caccia. E la cisterna, fondamentale  per le esigenze dei pochissimi abitanti, del bestiame e delle coltivazioni, considerato che Vivara è priva di acqua. E poi il frantoio, il palmento dal tetto a cupola, la vaccheria con la stalla e la torre per la caccia alle tortore. Tutti manufatti legati alle attività di trasformazione delle produzioni prevalenti, olive e uva. Oltre che ortaggi. 

Andò avanti così fino agli anni Sessanta del secolo scorso, quando l’attività fu interrotta e l’isolotto rimase disabitato. Iniziò allora una fase di abbandono, che ha inciso notevolmente su un’ulteriore evoluzione del patrimonio vegetazionale. Questo ha visto prevalere progressivamente la macchia mediterranea, con specie che si sono adattate alle diverse situazioni climatiche e pluviometriche che si riscontrano tra un versante e l’altro. Sui versanti più freschi e più umidi, è padrona la macchia alta con corbezzoli, che raggiungono addirittura i sei metri; eriche, anch’esse molto alte, che formano boschetti dalle fioriture bianche, molto evidenti nel mese di febbraio; alcune varietà di caprifoglio, robbia salsapariglia. Sui versanti più caldi e aridi, i più vicini al mare, domina invece la macchia più bassa con lentisco, mirto, fillirea, alaternoginestre, euforbie e cisti, compreso il cistus creticus dai caratteristici fiori rosa. Diffuse sono le macchie di olivi selvatici, che nella parte più alta dell’isola convivono con mirti, lentischi e carrubi. Nelle radure, con fioriture generalmente precoci rispetto ad altri luoghi, Vivara si colora grazie alle ferule, ai trifogli, all’inula viscosa dai bei fiori gialli e alle distese di narcisi, che a Procida chiamano “candelore”. E non mancano diverse specie di orchidee selvatiche, in particolare del genere Serapias. Molto limitate sono le presenze di specie originariamente tropicali come agavi americane, fichi d’India, carboproto. Mentre concentrati vicino ai ruderi si trovano capperi, rosmarinigelsomini selvatici e finocchi selvatici. Decisamente rari a Vivara sono, invece, il lauro e le edere.

Molto diffusi in autunno sono i funghi, delle più varie specie: prataioli, chiodini, famigliole, porcini, mazze di tamburo e vesce.

L’oasi naturale è ideale punto di riferimento per ben cinquecento specie di uccelli. Un centinaio sono stanziali, altre di passo, durante le migrazioni sia autunnali che primaverili. E infatti Vivara è anche zona di inanellamento dei migratori. Numerose le specie protette che nidificano, come il falco pellegrino, l’assiolo, il barbagianni, il succiacapre e il gabbiano corso. Punta d’Alaca è il regno del gabbiano reale.

Se gli anfibi sono assenti, per la mancanza d’acqua, i rettili sono rappresentati da lucertole campestri, gechi, emidattili e da una sola specie di serpente, l’innocuo biacco. Si contano anche undici specie di mammiferi: dai ratti, topolini selvatici e topolini domestici ai conigli, introdotti per l’attività venatoria fin dall’epoca di Carlo III di Borbone. Ben tre specie di pipistrelli sono oggetto di studi e osservazioni. Nel 1981 è stata anche scoperta una nuova specie di insetto, che vive sulle radici di innula viscosa, al quale è stato dato il nome di Peliococcus vivarensis. E non mancano le farfalle, attirate dalle fioriture di cui la macchia mediterranea è prodiga nell’intero arco dell’anno: in primo piano, la ninfa del corbezzolo e la farfalla Cleopatra.

Per questo straordinario patrimonio naturalistico, Vivara è SIC, Sito di Interesse Comunitario, e ZPS, Zona di Protezione Speciale.