Eh, lo so, con questo titolo rischio la blasfemia. Sarò pure irriverente, ma mi stuzzica evocare una delle leggende ischitane più famose
che, cavalcando la storia vera di un’amicizia epocale, narra dell’amore segreto tra Michelangelo Buonarroti, il genio della Cappella Sistina, e la poetessa Vittoria Colonna, marchesa di Pescara.
La liaison straordinaria e controversa, alla quale eminenti studiosi hanno dedicato studi profondi, si sarebbe materializzata proprio a Ischia, tra due sponde separate dalla baia della romana Aenaria: quella della Torre Guevara, nota al pubblico massivo come Torre di Michelangelo, e quella del Castello Aragonese. Qui, in un luminoso milieu, eccezionale cenacolo di artisti e intellettuali, la nobildonna ha trascorso parte della propria vita. Un pruriginoso tunnel sottomarino di collegamento tra la costa dell’isola madre e il mega scoglio abitato, avrebbe favorito gli incontri tra i due protagonisti del Cinquecento.
Sorridendo, ho sempre attribuito questa storiella, vagabonda nell’immaginario di tassisti, guide turistiche e comandanti di barconi in tour marinaro, alla incrollabile fede nella potenza dell’Eros proteiforme: è utile a costruire e inventare una tradizione, perfetta per affascinare i frequentatori di passaggio in una località vacanziera.
L’ho fatta un po’ lunga? Forse, ma giocando col presunto e presuntuoso malinteso, introduco il ragionamento godereccio che riguarda un altro amore possente: quello per il cibo. La scena è ultra contemporanea, e vede sotto i riflettori un altro Michelangelo, di professione cuoco.
L’affinità con la premessa, oltre al richiamo sottinteso alla creatività umana, è che Michelangelo Iacono – è a lui che mi riferisco, qui ritratto in una foto narrativa – è lo chef de «La Cucina del Monastero», accolta nel cuore del monumento che è patrimonio del nostro pianeta. È il ristorante che Nicola Mattera ha ideato per indurci in tentazione in primavera, all’interno di una preziosa pinacoteca; o, nelle sere estive, sulla terrazza che regalava il panorama al vecchio Convento delle Clarisse, dominando il puzzle architettonico di Ischia Ponte. Da qui lo sguardo ci obbliga ad amare di più chi ci accompagna. Romantico? Eh, provate a immaginare.
Sarebbe banale utilizzare un paio di sostantivi – quali poeta o artista – per enfatizzare la didascalia del mio amico Michelangelo che, invece, è un interprete umile, gioioso, innamorato pazzo del suo ruolo e della cultura alimentare locale. E non solo. Orgoglioso del proprio Dna fontanese, ovvero dell’appartenenza ai borghi rurali sorti alle falde del Monte Epomeo, la vetta panottica che si specchia nel golfo di Napoli e nel Sud caldo e sconfinato, Michelangelo è un instancabile messaggero del gusto.
Come solo i grandi cuochi sanno fare, non vive di acculturazione per sentito dire, ma celebra manualmente, andando a curiosare e cucinandoli, i ricordi propri e familiari di un profumo, di un sapore, di miscellanee odorose selvagge, agricole e piscatorie.
L’elaborazione tecnica è minimal e convincente, in assenza di amarcord e nostalgia; e in presenza – invece – di una consapevolezza sincera, semplice e fresca e sapida per rendere omaggio alla bontà quasi in purezza, con un intarsio di colori vivissimi. Il ricettario si manifesta in due menu, che si esaltano a vicenda per coerenza, con il contrappunto dei pani lievitati con garbo antico.
Mangio, un po’ danzando, tra i suggestivi percorsi di «Marevascio» (pesce) a 80 euro e «Marecoppe» (terra) a 70 euro, e mi diverto, segnando sul taccuino la sintesi: «eleganza della concretezza saporita». Hai detto còccati…
Le prove sono continue, lo sfruculiamento dei prodotti naturali è incessante, la composizione dei piatti è la sintesi di un mondo che mi appaga. Ne fanno parte la complicità di ciò che, magistralmente, qui offrono le spezie, le erbe, gli ortaggi, la frutta dell’orto del Castello (totalmente biologico); il vino Biancolella figlio della vigna accanto, senza trascurare i capperi che spuntano ovunque e il ricco mare sottostante.
Ma, non lo dimentico, bisogna condire la cena con la Storia del luogo: qui c’era una città-fortezza autosufficiente. Esemplare. Pur brulicante, ma piuttosto sacra, in tutti i sensi. La personalità del posto non può essere contaminata dai vezzeggiativi delle mode.
Il custode di questa bellezza millenaria, Nicola Mattera, non lo consentirebbe. Ed ecco che, allora, l’exploit si compie, come in un trio di fiati. Michelangelo Iacono ha trasferito dentro di sé la vulcanicità controllata del luogo, disciplinandola con una sequenza di sorrisi contagiosi. Poi, Roberto Schiano, maître e sommelier dalla verve appassionata, è il regolatore d’intensità delle sensazioni: suggerisce gli abbinamenti, centellinando i picchi d’entusiasmo del palato. Solo per il fatto che continua a conservarmi in esclusiva una bottiglia di Ouzo, il distillato ellenico che mi commuove, Roberto meriterebbe un paragrafo a sé.
Ma dicevo del trio, che è un po’ di più, tra sala e cucina: chiamiamola pure una jazz-band che mi suona un «risotto agli agrumi con totani e peperoncini friggitelli (verdi dolci)», giocando poi con il «crudo e cotto di verdure»; lo «spaghettino» e le polpettine; o la suprema «zuppetta delicata con spigola appena pescata e cozze». Sembra tutto fatto apposta per invitarmi a tornare al più presto. A estate inoltrata, dopo molti step, sto toccando l’apice della mia avventura gastronomica stagionale. Non aggiungo altro. V’invito a prenotare prima del 30 settembre (tel. 081.992435), e prima di me, che ho un appuntamento col bis annunciato. Non vedo l’ora, a proposito, di riassaporare le osannanti zeppole fritte con crema, amarene e cannella. La cannella, finalmente! Una sorpresa, appunto finale e spaziale: apoteosi mediterranea, napoletana, greca, turca, araba, indiana… Non potrei desiderare di più: zeppole fritte, loukoumades, lokma, luqma… Chissà, forse ve ne riparlerò.
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