Vi propongo qualcosa d’inedito e risalente a qualche tempo fa: è un microracconto in più episodi legati tra loro dalla passione per il vino e non solo. Non ho mai avuto un diario. Dunque lo scrivo apposta. E con una prima parte d’oltre confine, d’oltre cortina. Può darsi che ci sia il rischio di scivolare sulle pareti della nostalgia cruda e delle digressioni ellittiche. Ma è sopportabile. A me diverte. Perché non mancano le coincidenze davvero portentose.
Nell’estate del 1988, in compagnia di due carissimi amici (il primo oggi è uno scienziato che insegna negli Usa; l’altro è un prestigioso avvocato emiliano), ero andato a curiosare nella Romania di Nicolae Ceaușescu per provare a capire se la fame che ormai attanagliava il paese potesse prima o poi trasformarsi in una miccia esplosiva. S’avvertiva uno straniamento corruttivo, un mercimonio umiliante e liberticida. Ma…
Sarebbe stato fatale il 1989: a novembre cadde il Muro a Berlino, un mese e mezzo dopo ci fu l’esecuzione del vecchio leader maximo impotente e depresso. Tutto avvenne così rapidamente che Nicolae non se ne rese conto, terminando la sua vicenda umana in modo truce.
Non scrissi alcun reportage, ma quando ci fu la rivoluzione dell’89 una tivvù mi chiese un’intervista per raccontare le sensazioni postume del mio viaggio borderline.
Quell’estate ci fermammo anche a Neptun, località balneare per ricchi, sul Mar Nero, un po’ spettrale, che faceva il paio con la pop Mamaia, ed era punteggiata nel retroterra di dacie e grandi ville di cui erano proprietari i paperoni della Nomenklatura di Partito.
Noi giravamo con una «Mini de Tomaso» a tre cilindri, minuscola citycar che maltrattammo non poco in quell’avventura. A fare da mostruoso contraltare, in un vortice di desolazione che ci opprimeva, il rombante, funereo e assurdo sfrecciare - su strade sdrucciolose e temibili - di una «Lamborghini Countach» nera. Era pilotata da un magnaccia, da un magliaro? E chi altri?
Appariva e spariva sui nostri percorsi come una tumefazione della realtà, un paradosso violento e velocissimo. Un allucinogeno nello scenario di povertà allo stato puro: non dimenticherò mai lo sguardo di una anziana che, di nascosto (sul capo aveva una sciarpa di lana scura a celare il volto), all’angolo di un alto muro di periferia, provava a vendere un paio di melanzane e un cetriolo rinsecchito.
Né mi è sparita dalla mente la proposta ubriaca di un tale – diceva di lavorare alla dogana della capitale per conto del Grande Capo – che voleva offrirci la moglie (sic!) in cambio di una cena pagata da noi, a base di interiora di pollo bollite e finto spumante, un intruglio scarsamente bollicinoso e poco alcolico, contenuto in un recipiente con il collo avvolto da carta stagnola giallodorata e luminescente. Che scena! A ripensarci, sembra uscita da un fabliau medievale francese.
E non dimenticherò mai – era a Bucarest - il gommista che gonfiò con la pompa a mano la ruota di scorta che avevamo bucato. Era malmessa ed eravamo disperati: non si trovavano pezzi di ricambio. Nell’officina non c’era il compressore, altro strumento da paradisi artificiali. Solo le sue braccia e i muscoli non del tutto mummificati dalla fatica. Era un pezzo d’uomo di origine polacca, aveva fatto il pugile, zigomi giovanili da roccioso incassatore e stomaco invecchiato da pesomassimo. Mi disse, emozionato e un po’ paonazzo, che aveva combattuto in Svizzera – e mi parve di comprendere che accadde a Lucerna - durante una riunione alla quale aveva partecipato anche Nino Benvenuti, idolo assoluto della nostra boxe. Riuscì a spiegarsi abbastanza con la lingua universale dell’orgoglio e della tristezza, sorridendo a noi italiani, compatrioti del magnifico Nino dell’isola d’Istria, mentre ci consegnava lo pneumatico riparato e tornato in forma.
Di quella breve chiacchierata nel garage nebbioso, tra gesti universali ed Esperanto improvvisato, mi era rimasto un cruccio: non mi era stato chiaro se i due – il gommista e Nino - avessero combattuto l’uno contro l’altro.
Oggi, scrivendo questo pezzo, ho una certezza. Il mio e nostro salvatore ha un nome e cognome: Henryk Dampc. Fu tra i protagonisti dei Campionati europei di pugilato dilettanti maschili che si svolsero nella città elvetica, e fu sconfitto nella finale dei Superwelter proprio da Benvenuti, che era il capitano della nazionale azzurra. La data? 31 maggio 1959. Nino l’anno dopo avrebbe vinto le Olimpiadi a Roma…
In genere ho una memoria ridicola, quasi nulla, ma questo grappolo di fatti proprio non ne voleva sapere di finire nell’oblio. E Internet mi ha dato una mano a ricomporre le tessere del mosaico, lucidando una medaglia d’argento ingoiata dal dimenticatoio dei guantoni.
E poi? Una sera, da scapestrato, m’infilai in un boschetto costiero e trovai uno scranno libero durante una tavolata all’aperto. Era una festa zigana, smorzai il sottile timore d’approccio tra qualche bicchiere di intenso purpureo e amabile uvaggio contadino (forse era «Fetească Neagră» di Vrancea e dintorni più marittimi), l’orchestrina clamorosa e un trancio di carne d’agnello bruciacchiato dalla brace. Finalmente mangiai qualcosa di apprezzabile dopo giorni di cibo improbabile, dissenterico ed estenuanti contrattazioni al cambio nero: carta straccia per dollari, immolati alla sopravvivenza turistica. Con i soldi americani avevamo però acquistato in precedenza, in due tristi e paludati ristoranti d’albergo privi di tutto se non di strati di polvere trionfale, due stratosferiche bottiglie di un Merlot secco e di Cabernet Sauvignon di Murfatlar dell’86 che i camerieri tenevano nascoste: fu una briscola di goduria liquida nel baratro dell’impossibilità di trovare da bere, e fu un brindisi alla fortuna. La regione di Dobrogea conserva una cultura enoica millenaria. Provate a chiedere a Ovidio, poeta e intenditore euforizzato per gli stessi motivi. Ah, ah.
E qui si materializza il salto temporale nel segno dell’ulteriore piacevolezza.
Un giorno, tempo dopo, mi soffermai a evocare quella scoperta vinosa e balcanica nientemeno che con Gianni Mura: gli brillarono gli occhi, si incuriosì annuendo per le mie bevute e bravate retrodatate. Ci incontrammo, con Gianni, in un posto molto speciale.
Quando? Con buona probabilità era la tarda estate del ‘94. Ci eravamo dati appuntamento alla «Parracina», il ristorante che il compianto «papà» Corrado D’Ambra aveva appena aperto in azienda, a Casa D’Ambra Vini a Panza, per e con una coppia di talento unica: Giovanni Iovine e Libera Esposito, lui sommelier e selezionatore di prodotti gourmet; lei, cuoca geniale per la sua inarrivabile semplicità. Si apparecchiava per lo più in terrazza. Il menù speciale di quel desco originale e lontano dai cliché prevedeva, tra l’altro, una gita in salita verso l’Epomeo, alla Tenuta Frassitelli; a volte anche un giro in monorotaia panoramica, e una visita al Museo del Contadino.
Libera e Giovanni, dopo quell’esperienza (durata un biennio) che avrebbe definitivamente ricollocato le proprie vite nel destino doppio e genetico forgiato nell’insularità di Ischia e Procida dalle rispettive famiglie, a fine marzo del ’96 aprirono Il Melograno: e così la luce fu, sul food nostrano.
Tant’è. Nel backstage di Casa D’Ambra era stata allestita una grande cucina trasportabile con fuochi professionali. E quella sera a Panza, a utilizzarla, c’era un altro ospite magnifico, il già stellato sperimentatore e avanguardista Moreno Cedroni de La Madonnina del pescatore a Senigallia. Mentre Libera, chef resident, sovrintendeva al coordinamento, Moreno preparò gli scampi con polenta bianca serviti in padella d’alluminio, un piatto che fa ancora parte della sua personalissima top-twenty.
Adesso c’è una postilla da brividi. Mai avremmo potuto immaginare che quella grande cucina sarebbe servita per un evento eccelso: fu trasferita per un giorno nel giardino dell’episcopio di Ischia Ponte, perché i ragazzi dell’istituto alberghiero potessero preparare il pranzo al papa Giovanni Paolo II, in occasione della sua visita pastorale nell’isola verde che ci mise al centro del mondo. Era il 5 maggio del 2002. Io c’ero. E Karol Wojtyla era polacco come il mio salvatore a Bucarest. Eh, sto esagerando? Fate un po’ voi.
Torniamo alle cose terrene. Intanto nella sala interna dell’azienda il gran cerimoniere era Giovanni, e continuava a stappare i vini prodotti da Andrea D’Ambra, al quale mi uniscono anche una moltitudine di emozioni infantili e adolescenziali che ho già sintetizzato nella postfazione al suo (a quattro mani con Antonella Monaco) «Storia del vino d'Ischia. La viticoltura nell'isola verde dai greci a Salvatore D'Ambra». Ne riparlerò. Andrea oggi sta costruendo un esemplare percorso ereditario, condividendo la responsabilità imprenditoriale con le figlie Sara e Marina. E mi riempie di gioia.
Comunque la cena storica con Cedroni e Mura impone lo svelamento di altri dettagli. Gianni Mura aveva accettato l’invito di Corrado senza indugi. Con la moglie Paola già viveva l’isola estiva come buen retiro testimoniando, per questa terra in mezzo al Tirreno, un amore senza paraocchi che avrebbe poi esaltato con un romanzo noir pubblicato da Feltrinelli («Ischia» del 2012): lo avrei presentato a (guarda un po’) Ischia Ponte l’anno successivo.
C’era un mix spettacolare di anime, in quella serata panzese.
L’aperitivo era stato inaugurato con il «Kalimera brut» firmato magistralmente da Andrea, champenois del mio cuore che fa parte delle leggende enoiche isolane che non vorrei considerare irripetibili. Mi manca. E per questo non vorrei essere confinato nel catalogo dei romantici irriducibili.
Poi passammo al cru «Frassitelli», inno sacro al tufo verde eroico d’altura quasi estrema. Infine, cambiammo colore e gradazione. Ad libitum. Alle due di notte, mentre i vetri vuoti si accatastavano impilati nelle casse, Paola e Gianni restavano imperturbabili; Corrado si era sciolto e Andrea discuteva con un briciolo di apprensione per i giudizi ai suoi vini – come dire? - in concorso per noi. Paola era più tosta di Gianni. Per quanto mi riguardava, ormai inciucchito del giusto, citavo audacemente mitici corridori spagnoli da Tour de France, Giro d’Italia e Vuelta a España: Vicente López Carril, González Linares, Domingo Perurena.
Quella mini lista di passisti-scalatori e velocisti certificava la mia discreta conoscenza sportiva, e appariva miracolosa. Come avevo fatto a ricordarli? Merito del nobilissimo «Per’ ‘e palummo», con quell’etichetta artistica, l’inconfondibile personalità complicata e tipica d’un rosso non replicabile perché insulare e troppo identitario per sfidare a lungo il mercato d’antan. Memorie che si stavano materializzando di fronte al grandissimo giornalista – il più grande in Italia negli ultimi decenni - che il 2020 disgraziato si è portato via di colpo.
Mura è stato il nume del ciclismo vissuto e narrato. E della tavola. E del vino. E della parola. Feci una buona figura, sorpresi Gianni che non se l’aspettava, e però puntualizzò immediatamente vizi e virtù dei corridori iberici elencati. Figurati. In ogni caso, avevo fatto breccia con il Murflatar romeno. Mi bastava. Poco dopo, appena fu stappata l’ultima bottiglia ultranotturna, Gianni ci stese tutti: «Sai – disse flemmatico e lucidissimo rivolgendosi ad Andrea – questo Per’ ‘e palummo è più giovane, è diverso dagli altri che hanno un mese in più di affinamento!». Campione irraggiungibile. A quel punto, la luna bussò e ci salutammo.
***
Un sincero ringraziamento va a Giuseppe Mattera per un ricordo prezioso, e alla D’Ambra Vini (www.dambravini.com) per le immagini del Kalimera brut e del Per’ ‘e palummo d’annata.
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