Ehi, lo sapevi che, quando li coltivi in alto, molto in alto, ai pomodori col pizzo non devi far vedere l’acqua? Non m’importa cosa facciano altrove i contadini, ad esempio sulle dorsali vesuviane: garantisco per ciò che conosco della prassi agricola, abituale sulla vetta ischitana, l’Epomeo, che è abbracciato da vigneti, frutteti e orti galattici.
I pomodori, da queste parti, li raccogli, li porti in cucina, li lavi giusto un po’ (ma nemmeno); li spacchi a metà, li condisci (poco), li poggi sul pane tagliato a fette spesse e larghe e, se ti piace, abbrustolito; tra strofinate d’aglio, annunci di cipolla bianca e basilico da cuccagna. Ci siamo: ecco i colori forti, la consistenza sgranocchiosa e la dolcezza che festeggiano per te, ancora prima di mordere. E, allora? Via, con una scorpacciata post-pomeridiana. Chiamale, se ti va, bruschette di montagna. C’è pure una rima, da qualche parte.
L’antefatto è che il trekking non era in programma. Abbiamo deciso – con Fedra e Antea, autrici di queste e tante altre foto – all’ultimo istante, perché l’idea era di esplorare Piano Liguori, sulla costa dello Scirocco.
E invece ci ha stuzzicato il tramonto massimo epomeico, da conquistare dopo la non breve arrampicata, da sniffare in armonia, raggiungendo l’unico posto isolano dove fai una piroetta, sorridi e vedi tutto, proprio tutto il paradiso (facendo finta di ignorare le schifezze che spuntano qua e là all’orizzonte).
La botta di Natura è pazzesca, la fittissima vegetazione boschiva in controluce della Falanga è accecante, a ovest; la sfida alpinistica a nord, di Capo dell’Uomo circondato da argille bianche ricche di fossili, è un sogno; la prospettiva sul mare a sud è punteggiata dalle poiane che volteggiano tra i flussi d’aria bollente. Mentre l’eremo e la chiesetta di Santu Nicola che stanno ai tuoi piedi ti ricordano il dono del silenzio, e che c’è stato un miracolo: quelle che scorribandano, a caccia nel cielo settembrino sono le poiane scampate all’incendio brutale che, all’inizio d’agosto del 2017, devastò la verticale foriana, a partire da Montecorvo, aggredendo pure i Frassitelli. Meno male.
A proposito di animali, lungo il percorso in salita – la mulattiera dei tempi belli – un gattino di nome Cip (dal collarino) è letteralmente zompato all’improvviso sulle spalle di Fedra per giocare, facendo le fusa, eh, eh, dopo un finto agguato... Ci ha aspettati anche sulla via del ritorno, e per un tratto ha deciso di accompagnarci, zigzagando tra le nostre gambe. Troppo carino. Per qualche minuto abbiamo pensato si fosse smarrito. Ma no, abita lì, a «La Porta di Agartha» che è anche… un ritrovo per cercatori di misteri ctonii.
Okay, torniamo alla cima dell’Epomeo. E ai pomodori, prìncipi regnanti nel tufo. «Le piantine le annaffio per un paio di volte, solo dopo averle messe a dimora nel terreno. Poi, l’acqua se la cercano da sole!». Le rugiade albeggianti e l’umidità salmastra che fa un bel viaggio prima di depositarsi, vanno a nozze… con il pollice verde.
La sentenza è di Fiorenzo Mattera che sta qui, a «La Grotta da Fiore» (è molto più di un ristorante, ed è aperto fino a novembre – telefono: 339.1654739 e 368.559916) per proseguire con la famiglia la missione eroica di Orlando Fiore Trofa e Maria Nocera. Fiore fece tutto da solo, era il 1965, e si mise a scavare a mano la grotta che collega i due versanti, meridionale e settentrionale, che stanno trenta passi più giù dell’estremità celeste di Ischia, a 788 metri sulla linea di battigia. Visionario e geniale.
Le figlie di Fiore, Teresa Trofa (in cucina) e Fiorella Trofa (in sala), hanno intorno a se una corte di brillanti giovani, oltre a Fiorenzo: Antonio Mattera, Ursula Mattera, Cesare Mattera. Ripeto per ognuno questo cognome, radicatissimo tra le contrade collinari.
Così come Trofa, che è forse più esotico: mi piacerebbe che fosse derivato da τροφή (trofì), che vuol dire «cibo» in lingua greca, ma non è escluso che si leghi al sostantivo napoletano che indica un arbusto, appunto «trofa» se non ricordo male. Magari, altrimenti, ha origini lusitane, chissà. I Trofa se ne andarono in giro per il mondo, anche in Algeria, e tanto tempo è trascorso…
Fiorenzo ha studiato all’Istituto Alberghiero, quando la preside era Giuliana D’Avino e – lo abbiamo scoperto insieme, svelandoci, a furia di insistere e ripetermi che la «tua faccia non mi è nuova» – ed è stato alunno, nientemeno, a un mio corso da esperto di Cultura gastronomica. Anni fa, ma non troppi.
Fiorenzo e gli altri coltivano alla Pietra dell’Acqua (ma la proprietà è davvero estesa: cinque ettari, nei paraggi) un appezzamento impegnativo: «Ho fatto la seconda semina di pomodori a inizio d’agosto, ed eccoli qua, pronti, belli tosti e saporiti, asciutti: eh, buone le bruschette?».
Spìiciiàli, come dicevano i nonni, calcando gli accenti e allungando le vocali. Antonio, intanto, annuisce e mi racconta che «finalmente sono tornati i tedeschi». Significa che la stagione riparte con gli amanti delle atmosfere rarefatte di quassù, del bicchiere di vino, del godimento arcaico da Grand Tour. Cesare, nel frattempo, scrive a mano qualche appunto per me, preoccupandosi della calligrafia…
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