Ugo Niutta si chiamava l’aviere effigiato nella statua collocata all’ingresso, sottottenente e napoletano di nascita, caduto in combattimento ad appena ventisette anni e insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Quando fu dedicato a Niutta, funzionava a pieno regime da appena un decennio, lo scalo napoletano. I primi aeromobili si erano alzati in volo solo nel 1910, ma era già affermato come uno dei più importanti della Penisola, con un traffico aereo in crescita anche dall’estero. A suggellare il successo crescente, in quei primi anni Venti del ‘900, fu la costruzione di un nuovo edificio nello stile pre-razionalista dell’epoca, per accogliere dapprima la Regia Accademia Aeronautica e diventare poi sede della Scuola Specialisti della Regia Aeronautica, tra il 1935 e il 1939. Strutture imponenti, che la Seconda Guerra Mondiale avrebbe in gran parte cancellato, fatta eccezione per il corpo centrale dell’edificio che si è conservato fino ai nostri giorni. Del resto, l’aeroporto “Niutta” ebbe un utilizzo prevalentemente militare nella prima metà del secolo scorso, per poi diventare uno scalo aereo civile di Stato, pur rimanendovi attiva una base aerea militare.
Nonostante sia passato un secolo, la solenne intitolazione non ha scalzato il nome con cui è ovunque conosciuto l’aeroporto di Napoli, anche se difficile da pronunciare per gli stranieri: Capodichino. Mutuato dal toponimo della collina che lo ospita, in origine Caput Clivii, il capo della salita, ovvero l’inizio della strada che conduceva in città. Sono seguite nel tempo varie trasformazioni, da Caput de clivio a Capo de chio, fino alla sintesi di Capodichino.
Era da Porta Capuana che si saliva alla ridente collina, coperta di vigne e frutteti. La sua posizione risultò ideale per accogliere i voli in mongolfiera, che ai primi dell’Ottocento, tenevano con il fiato sospeso le folle davanti alle evoluzioni dei moderni, allora avveniristici, palloni aerostatici.
In verità, a Napoli un pallone si era già alzato il 13 settembre 1789 nel cuore di Napoli, davanti a Maria Carolina e Ferdinando IV, che assisterono all’inconsueto spettacolo dal terrazzo di Palazzo Reale. Protagonisti di quella prima evoluzione furono due pionieri del volo: il lucchese Vincenzo Lunardi, primo aviatore italiano, e Tiberio Cavallo.
Era stato, poi, all’epoca dei Francesi che la collina era stata spianata per ordine di Gioacchino Murat, per ospitarvi un ippodromo e tenervi delle esercitazioni militari. E su quella spianata, chiamata Campo di Marte, si era esibita anche l’eroina del momento, Marie Sophie Blanchard, prima donna a dedicare la vita al volo. Alle sue già numerose e ardite imprese, che avevano mandato in visibilio il pubblico di mezza Europa, nel 1811 aggiunse un volo senza precedenti da Roma a Napoli, salendo fino a 3600 metri d’altezza. Nulla sembrava allora impossibile a colei che aveva trasvolato le Alpi e compiuto decine di ascensioni, anche sperimentando innovazioni tecniche di rilievo.
Cento anni dopo, nel maggio 1910, si era tenuto un primo raduno aeronautico, che era stato un fiasco. E nel 1911 anche Eduardo Scarfoglio, direttore de “Il Mattino” volò da passeggero sul Campo di Marte. Poi, il 23 aprile 1912, a cura del Circolo Aeronautico napoletano, si levò in volo ReginaFerrario, la prima donna pilota italiana e la settima al mondo ad avere il brevetto, che lanciò garofani rossi sulla città. Da allora i progressi furono continui. Nel 1920 fu inaugurata la prima pista per il servizio di posta tra Napoli e Roma e nel 1925 fu realizzato il complesso per aprire l’Accademia aeronautica, che però si insediò nella Reggia di Caserta.
Tutto fu distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale e per avviare la ricostruzione si dovette aspettare il 1948. Poi, dagli anni Cinquanta, cominciò a svilupparsi l’aviazione civile e da allora l’aeroporto di Napoli si è conquistato un ruolo sempre più importante. Con i suoi due secoli, intensi, di vita, Capodichino racconta una storia che parte dalle mongolfiere e arriva al moderno scalo internazionale di oggi.
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