SANNIO
Inconfondibile, il profilo sinuoso e placido
della “Dormiente”si staglia sull’azzurro del cielo.
E’ lei che identifica questo tratto dell’Appennino Campano con il Sannio. Un territorio antico, per la sua storia umana e ancor più per quella geologica. Antico, come l’imponente massiccio del Taburno le cui cime, modellate dagli elementi atmosferici per centinaia di milioni di anni, delineano le forme della “Dormiente”. Tra tutte, la più alta è la vetta che dà il nome all’intero complesso montuoso che è anche un parco naturale regionale: il Monte Taburno, cantato da Virgilio per gli ulivi e i pascoli, che raggiunge i 1391 metri.
Di poco più basso il Camposauro, spesso associato al precedente nell’indicare il massiccio, con i suoi 1388 metri. E poi, in ordine di altezza, l’Alto Rotondi, il Sant’Angelo, il Gaudello, il Pentime, ovvero la testa della “Dormiente”, e tutti gli altri che cingono a semicerchio la Valle Vitulanese. Ricca d’acqua, grazie ai numerosi torrenti che la percorrono. Primi fra tutti lo Jenga, che ricevuta l’acqua dello Jerino, confluisce nel fiume Calore nei pressi di Benevento. Dove si aprono da una parte la valle Beneventana e, dall’altra, la valle Telesina, a comporre entrambe la cosiddetta valle del Calore citata dallo storico latino Tito Livio.
Negli oltre 100 chilometri del suo corso, lungo i quali si arricchisce delle acque di vari torrenti e dell’Ufita, il Calore Irpino riceve il fiume Tammaro poco prima di Benevento e poi, attraversata la città, si unisce al fiume Sabato e ad altri corsi d’acqua minori per proseguire superando il monte Camposauro ed entrare nella valle Telesina, che percorre interamente prima di confluire nel Volturno. Per la sua temperatura più alta degli altri fiumi, da cui ha forse mutuato il nome, si pensava anticamente che l’acqua del Calore fosse termale e le venivano perciò attribuite proprietà terapeutiche. Era comunque un fiume di grande portata, tanto che nel XVII secolo era perfino navigabile fino al Volturno, mentre fin dall’epoca romana ha contribuito ad alimentare vari acquedotti, come avviene ancora con l’Acquedotto pugliese. E decisivo, insieme a quello del torrente Titerno, è il suo apporto alla fiorente attività agricola della valle Telesina, con vigneti a perdita d’occhio, come in tanta parte del Sannio, cuore della viticoltura campana.
Dalla sommità del Taburno, che la chiude a nord, si domina la valle Caudina, delimitata a sud, al confine con l’Irpinia, dalla catena montuosa del Partenio. Centro geografico della Campania, la valle prende il nome da una delle quattro tribù sannite, i Caudini, che vi avevano la loro capitale, Caudium. Lì dove i romani nel 321 a.C., durante la seconda guerra sannitica, subirono la loro più cocente sconfitta, passata alla storia come “Forche caudine”. In gran parte pianeggiante, attraversata dal fiume Isclero, affluente del Volturno, anche la valle Caudina perpetua un’antica vocazione agricola, con una prevalenza della viticoltura.
Considerato sacro dai Sanniti, terza vetta per altezza del massiccio del Matese con i suoi 1823 metri, il Monte Mutria si trova al confine tra il Molise e la Campania e tra le province di Campobasso, Caserta e Benevento. Dalla sua sommità, quando il cielo è terso, si può spaziare con lo sguardo dall’Adriatico al Tirreno e ammirare le tre valli, del Tammaro a est, del Calore Irpino a sud e del Volturno a ovest. Raggiungibile da vari sentieri, tra i quali uno che parte da Bocca di Selva, dalla sommità del Mutria, si domina gran parte del Sannio, di cui è parte integrande il versante meridionale del Matese, che la valle Telesina separa dal massiccio del Taburno Campodauro. Caratterizzati da fenomeni carsici sopra e sotto terra, con fratture, doline, grotte e inghiottitoi e una natura ancora in tanti luoghi selvaggia, grazie ai fitti boschi e ai numerosi corsi d’acqua, i monti del Matese, che furono percorsi dall’esercito di Annibale, sono oggi un parco naturale regionale, che comprende anche l’oasi faunistica del Monte Mutria. E alle sue pendici, nel territorio del piccolo Comune di Pietraroja, sono stati rinvenuti importanti reperti fossili, compreso un cucciolo di dinosauro della specie Scipionyx Samniticus, ribattezzato Ciro, che è diventato il simbolo del Paleolab, un parco geopaleontologico, e del suo museo.
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