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Nella notte più attesa, la portata aumentava all’improvviso e l’acqua si alzava velocemente nella vasca, fino a riempirla.
Nella serena notte di mezza estate, tutto il paese veglia, unito nell’attesa che le campane della chiesa madre inizino a suonare. Da tempo immemorabile, è quello, ogni 26 luglio, l’inizio di uno dei momenti comunitari più significativi per i figli di Sanza e per tanti altri fedeli cilentani.
Da secoli è nel cuore dei napoletani. In quel luogo sull’antica via Domitiana, nel tratto che da Pozzuoli conduce ad Agnano, la storia racconta gli ultimi momenti di vita di San Gennaro, patrono amatissimo della città di Partenope.
Dove lo sguardo può spaziare tutto intorno, inquadrando i monti più vicini, anch’essi figli della catena dei Picentini, e poi, in tutte le altre direzioni, i Lattari, gli Alburni, l’inconfondibile Vesuvio e, più lontano, le catene del Partenio e del Matese, fino al golfo di Napoli e alla sagoma dell’isola d’Ischia nelle giornate in cui il cielo è particolarmente terso.
Era ormai da diverse notti che quel fuoco si ripresentava al calar delle tenebre. Inspiegabile, giacchè nessuno sembrava averlo acceso vicino al vecchio pozzo da cui, da tempo, non si prendeva più acqua.
Coperto di fitti boschi, il Monte Tifata non poteva essere dedicato che a Diana dea cacciatrice, l’Artemide dei Greci, che ne avevano introdotto il culto dapprima nelle città costiere, per poi diffonderlo nell’interno man mano che si allargava la loro influenza anche tra le popolazioni indigene.
Un’oasi immersa nel verde, tra olmi vetusti e imponenti. Un luogo di silenzio e di meditazione, per molti di preghiera.
Un percorso tra il verde dei castagni che dal centro di Roccamonfina raggiunge la vetta del monte Lattani, nel cuore dell’antica caldera del vulcano ormai estinto.
Sugli Alburni, nella zona di Sant’Angelo a Fasanella che già nell’antichità accoglieva i pellegrini diretti sulla Costa Palomba per l’Antece, c’è una grotta frequentata già nelle Preistoria.
Da sette secoli è meta di pellegrinaggi tra l’ultima domenica di maggio e la prima di ottobre.
Si può considerare un altro capitolo della storia iniziata a Montevergine da frate Guglielmo da Vercelli, Santo protettore del’Irpinia.
La quiete sull’alto monte gli indicò che era quello il luogo. Dopo aver seguito il cammino di Santiago e aver peregrinato in Italia con il sogno di raggiungere Gerusalemme, Guglielmo da Vercelli raggiunse l’Irpinia e sentì un forte richiamo verso quella montagna coperta di boschi.
Era un pomeriggio d’autunno, il 13 novembre 1875, quando il gruppo dei devoti che si riuniva da qualche tempo nella valle di Pompei per recitare il Rosario insieme al napoletano Bartolo Longo, vide comparire un carretto solitamente utilizzato per il trasporto di letame.
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