In attesa di diventare Capitale della Cultura nel 2022, nella prossima estate Procida avrà il suo nuovo Museo civico, adeguato al valore delle testimonianze archeologiche che vi troveranno sede. Tutto frutto degli scavi archeologici condotti a Vivara, protagonisti dell’incontro di ieri di Isole Verdi, il corso di formazione per operatori turistici promosso dall’Area Marina Protetta Regno di Nettuno.
A far da guida in quest’altro affascinante viaggio nel tempo è stato il professor Massimiliano Marazzi dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, direttore scientifico dal 1994 del Progetto Vivara, che sta continuando a fare luce sul passato dell’isolotto e sul ruolo preminente che ha svolto nella storia del Mediterraneo, con l’obiettivo di accompagnare alla ricostruzione storica anche la valorizzazione dei ritrovamenti compiuti finora.
Quindici metri. A tanto corrisponde la differenza tra il livello del mare attuale e quello di oltre 3500 anni fa, per effetto del fenomeno di subsidenza che provoca l’inabissamento continuo e progressivo dell’area flegrea, isole comprese. Dunque, le terre emerse che conosciamo oggi sono molto diverse da come erano nel XVII secolo a.C., quando ebbe inizio la storia di Procida e Vivara, e anche di Ischia, ben nove secoli prima della fondazione di Pithekoussai, scoperta da Giorgio Buchner, che fu anche il primo a trovare tracce e conferme di quelle vicende molto più remote.
Nei primi decenni del Novecento, Vivara, raggiungibile solo via mare perché non c’era il ponte, era ancora abitata e molto coltivata. La macchia mediterranea, che ora copre quasi interamente la superficie dell’isola riserva naturale, lasciava spazio a vigne e uliveti. E la residenza borbonica sulla sommità era collegata ad altri edifici, tutti legati all’attività agricola. Fu in quel contesto che nel 1933 operò Buchner, laureando all’Università La Sapienza di Roma con una tesi sulla vita e le dimore nelle Isole flegree nel periodo pre-classico. I saggi e le ricerche furono condotti a Punta Capitello e rivelarono tracce della presenza di un villaggio preistorico collegato ad un insediamento a Procida e ad un altro villaggio sulla costa settentrionale dell’isola d’Ischia, in località Castiglione, che allora era molto più vicina, tanto da poter essere raggiunta con qualunque imbarcazione. Tra i frammenti ceramici, in particolare, ne trovò qualcuno da oggetti modellati col tornio e dipinti, provenienti dalla Grecia. Non quella dell’VIII secolo, all’origine della colonizzazione euboica a cui in seguito si sarebbe completamente dedicato, ma quella assai più antica di Pilo, Micene eTirinto: la Grecia cantata da Omero.
L’inizio dello scavo
Si iniziò a scavare a Vivara nel 1976 e si continua ancora oggi. Dagli anni ’90, l’attività archeologica è stata guidata da Marazzi e dal compianto Sebastiano Tusa, scomparso di recente in un disastro aereo, a cui sarà intitolato il museo di Procida. Le tracce individuate da Buchner trovarono conferma con la scoperta di insediamenti a Punta Mezzogiorno e Punta d’Alaca. Ma soprattutto andarono emergendo via via i contatti dell’arcipelago flegreo con la Grecia, fondamentali nei rapporti tra il Mediterraneo centro-orientale e quello occidentale. Le rotte dalla Grecia, verso le Eolie e poi, atraverso lo Stretto di Messina, nel Tirreno, giungevano alle Isole flegree, raggiunte anche dalle rotte dall’Africa settentrionale. L’esigenza di spingersi a occidente e a settentrione era legata all’approvvigionamento di materie prime fondamentali per le produzioni dell’epoca: in Sardegna rame e stagno, necessari per la lega del bronzo, e lo zolfo in Sicilia.
Dalla Grecia prodotti raffinati
I pochi frammenti di Buchner hanno lasciato spazio a centinaia di reperti di metallo, di ceramica e perfino gioielli. Ed è stato possibile far risalire lo stanziamento sulle isole intorno al 1650 a. C.. Dunque, la zona flegrea è il centro di riferimento più antico e l’avamposto più avanzato in occidente per i naviganti micenei. Che trasportavano dalla Grecia e dall’oriente prodotti raffinati, come ceramiche lavorate al tornio e finemente dipinte, unguentari con olii profumati e cosmetici. Ma nel ventre delle navi viaggiavano anche oggetti di uso quotidiano insieme ai pithoi pieni di derrate alimentari. A Vivara è stata rinvenuta un’applique d’oro, cucita su una veste, che fa pendant con simili oggetti protomicenei, ritrovati nelle tombe scavate a Micene da Schliemann. In una delle capanne di Vivara è stata recuperata una forma di fusione di spada micenea, il che è indicativo della lavorazione dei metalli in loco. Vivara, quindi, era il terminale dei viaggi per le materie prime, ma anche luogo di lavorazione dei metalli e di produzione di manufatti, con tecnologie avanzate. Tecnologie egee per prodotti di gusto egeo, ma fatti sul posto.
L’innovazione tecnica che viaggiava sulle rotte dei Micenei riguardava anche l’edilizia, giacchè le capanne erano di modello greco, coperte da tegole, elemento innovativo, tratte dal tufo lamellare presente a Vivara e a Procida.
I tokens vivaresi
Nei centri costieri lungo le rotte dalla Grecia verso occidente sono stati ritrovati esempi di protoscrittura: tavolette con iscrizioni simili alle egee.
A Vivara sono stati rinvenuti degli oggettini molto particolari, i tokens, che a seconda della forma, delle dimensioni e del valore che era loro attribuito, servivano per fare calcoli, ma anche per registrare gli scambi avvenuti tra i locali e i mercanti micenei.
La navigazione e gli approdi dell’isola
La vivacità di scambi che emerge dai ritrovamenti avvenuti fa pensare che vi fosse un grande porto per accogliere navi lunghe anche quindici metri, con remi e vela. Le vele erano quadrate, rigide, ma con un complesso movimento delle scotte, potevano essere mosse, il che consentiva di navigare di bolina, dunque con ogni vento dal Peloponneso, da Creta o dal nord Africa fino al Tirreno. Decisivo per conoscere come fossero fatti i navigli a quel tempo è un affresco, che raffigura i vari tipi di naviglio in uso, riemerso da un insediamento minoico sull’isola di Santorini. Su ogni nave erano in dotazione più ancore. Dietro Punta Solchiaro, a Procida, a dodici metri di profondità è stata identificata una bitta, segno della presenza di un approdo, e sotto una grande ancora preistorica, il cui rinvenimento proprio vicino ad un attracco rappresenta una rarità.
A quel tempo Vivara era ancora unita a Procida, di cui rappresentava una penisola e la superficie dell’attuale golfo di Genito era almeno per metà una distesa sabbiosa, dove le navi venivano tirate in secco per le attività di pulizia e di manutenzione, fondamentali dopo settimane di navigazione e di contatto continuo con il mare. Lungo la costa procidana sono stati individuati alcuni punti dove dovevano essere gli attracchi nell’antichità. Mentre nelle grotte costiere e sulle spiagge erano collocati magazzini funzionali alla navigazione, di cui resta un esempio nella zona del cimitero procidano.
Alcuni reperti recuperati da don Pietro Monti a Ciraccio ed esposti presso il Museo di Santa Restituta a Lacco Ameno hanno fatto ipotizzare l’esistenza di un grande villaggio, quello principale dell’intero insediamento, che doveva trovarsi sull’isola oggi di Procida, ma in quell’area è impossibile scavare per trovare conferma a questa ipotesi.
A Vivara, invece, la ricerca a Punta Mezzogiorno e a Punta d’Alaca ha dato ottimi risultati in entrambi i siti: nel primo, il villaggio era situato sulla sommità del promontorio, mentre nel secondo, le capanne erano collocate a mezza altezza, su due “terrazzi” affacciati sul mare
La “missione Vivara”
a “missione Vivara” identifica un sistema interconnesso, che comprende tutte le attività legate alla ricerca archeologica a terra e a mare, fatta con tecnologie, specialisti e procedure definite, e a seguire l’elaborazione e lo studio dei reperti e dei dati rilevati nelle aree di scavo, fino all’esposizione al pubblico. Collaborano a questo progetto varie istituzioni culturali, alcune università e centri di ricerca. Compreso il Centro Studi Mediterranei appena costituito.
Il bel complesso dell’Oratorio delle Orfanelle a Terra Murata è la sede del Museo che s’inaugurerà a breve. In quell’edificio funzionano già i laboratori per l’approfondimento scientifico, con metodologie all’avanguardia e approccio interdisciplinare, di quanto emerge dalle campagne di scavo e dei dati raccolti. Grazie a strumentazioni d’avanguardia, tutti i rilievi vengono elaborati per ricavarne ricostruzioni in 3D sia dei singoli reperti come dei contesti in cui sono venuti alla luce. Modelli funzionali al prosieguo della ricerca in laboratorio, ma anche a supportare la divulgazione dei contenuti che dalla ricerca stessa emergono man mano che si procede. Ed è già operativo anche un laboratorio di restauro, per i manufatti da ricostruire o da sistemare, in previsione della loro esposizione.
Grazie alle nuove tecnologie e all’uso del drone, è stato possibile fare passi avanti preziosi nello studio approfondito del territorio emerso e di quello che era emerso in epoca micenea, mentre oggi si trova sott’acqua entro i quindici metri di profondità. L’èquipe di ricerca subacquea ha identificato negli anni trentadue punti lungo la costa di Procida, che custodiscono testimonianze archeologiche di varia natura e consistenza. Non solo dell’epoca di frequentazione più antica, ma anche di età romana, come un’area dedicata alla lavorazione del tonno nel V sec a.C. e le vasche per la preparazione del famoso garum.
L’esplorazione del territorio dell’isolotto con le moderne tecnologie ha evidenziato l’esistenza di diverse scale che scendono fin sotto il mare e che, anticamente, collegavano i punti di approdo con gli insediamenti in posizione elevata. Due banchine sono state ritrovate sott’acqua nei pressi di Punta d’Alaca e una scala saliva fino al villaggio, lo stesso a Punta Mezzogiorno, dove vi sono tracce di banchine ricavate nelle roccia di tufo. Ad una profondità di otto metri sotto il promontorio di Santa Margherita, quella che sembrava essere una grotta sommersa, era forse in realtà un piccolo arsenale per la manutenzione delle navi sulla spiaggia, poi ricoperta nel tempo da strati di Posidonia. Al di sotto della prateria, sono stati rinvenuti vari reperti, tra cui un mucchietto di ossidiana locale (ce n’era sia a Procida che a Ischia, ma di pessima qualità), che probabilmente veniva usata per calafatare le navi.
Il mare si è anche impadronito dell’acqua dolce di cui disponeva l’isolotto, oggi privo di qualunque riserva idrica. Invece, vi erano diverse sorgenti di acqua dolce, collegate ai villaggi attraverso le scale. Due fonti sono ancora attive ma sommerse.
Quanto resta dei villaggi ha suggerito l’ipotesi che a segnare la fine dell’insediamento miceneo su Vivara sia stato un sisma intorno al 1500 a.C. Dunque, durò un secolo e mezzo la colonizzazione preistorica dell’isola flegrea allora unita, che in quel periodo fu crocevia di scambi, commerci, incontri e di rotte da ogni sponda del Mediterraneo. Nove secoli più tardi la storia si sarebbe ripetuta con la fondazione di Pithekoussai.
AREA MARINA PROTETTA DELLE ISOLE FLEGREE REGNO DI NETTUNO
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