CAMPANIA FELIX
Vorrei ritornare indietro con gli anni e riuscire ad avere la leggerezza, quella propria dei bambini che corrono felici e veloci sul prato contro il vento, che si rotolano... rotolano fino a cadere in una pozza di acqua e fango e ridere a crepapelle dalla gioia, la spensieratezza, la leggerezza che li rende così adorabilmente innocenti.
Sono coinvolgenti, fanno sorridere, vogliono che tutti condividano la bellezza del giocare, del rincorrersi, del nascondersi. Li senti gridare “all’arrembaggio!!”, “vediamo chi arriva prima!!”, “arrampichiamoci sulla quercia!!”, “saltiamo come ranocchi nella pozzanghera!!”. Riuscirci da grande sarebbe un’esperienza di una gioia infinita.
I bambini sono completamente disinibiti. Quando ridono, si divertono e giocano sono felici veramente, hanno reazioni spontanee, sincere, si lasciano andare completamente, abbracciano il momento nella sua pienezza, non hanno paura di mostrarsi disarmati, non nascondono niente, sono veri, sono loro stessi in ogni istante.
È la primavera a infondere queste sensazioni, voglia di rinnovamento, energia e spensieratezza. Cerco sempre di catturare la luce, il sole e i primi caldi che impongono una vera e propria ricarica che parte dal profondo del cuore e mi inonda di leggerezza. La primavera è la stagione in cui non solo spuntano i germogli e fioriscono le piante ma anche noi respiriamo una nuova energia data dai profumi inebrianti che hanno un effetto benefico sul nostro animo.
Oggi mi trovo in cima a una montagna con un panorama mozzafiato di fronte, chiudo gli occhi e trattengo il respiro, immagino di essere quella bambina che corre a perdifiato e poi ascolto i suoni impercettibili della natura quando all’improvviso sento lo stridio di un falco, apro gli occhi, lo vedo volteggiare in quel cielo azzurro… sembra che voglia venire verso di me. Io non so esattamente di che falco si tratta. Lo osservo attentamente. Dopo aver preso quota nell’aria con ampi giri ad ali aperte, portandosi sopra la mia testa, si allontana con qualche battito d’ali, ma per lo più plana.
L’emozione è tanta, mi sdraio sul manto di erba fresca e verde e mi perdo nell’immenso abbraccio del cielo che toglie il respiro. Ho raggiunto il giusto equilibrio tra me grande e me bambina, e questo mi permette sia di occuparmi della mia vita sia di accettare tutti gli aspetti straordinari che ne fanno parte. Osservare il mondo con occhi adulti è necessario, ma riuscire a dipingerlo con le sfumature della bambina interiore che è in me è sorprendente.
Ho imparato ad ascoltare la mia bambina interiore, perché mi dà lezioni che forse mi condurranno lungo il cammino della felicità. Non ho perso la curiosità, la voglia di godermi la vita e l’innocenza.
Ecco, sono ritornata bambina e insieme alla primavera sento nell’aria la Pasqua, le colombe bianche che volano serene, il profumo di limone della pastiera di riso di mia mamma e il profumo della frittata di asparagi selvatici e mentuccia che non mancava mai nel nostro tavolo imbandito della Pasqua e ancora limone... limone e... limone nello spezzato di agnello al forno.
Ho imparato da mia mamma a cucinare e ad amare il cibo e la nostra cultura contadina. Lei mi ha insegnato la scienza della terra, la varietà e la diversità delle risorse, l’alimentazione sana, variata e saporita, la parsimonia e la condivisione.
Preparavo con lei, sin da piccola, le pietanze pasquali con le uova come immancabile ingrediente. Le uova di Pasqua non erano di cioccolato ma erano uova sode colorate e la sorpresa era poterle mangiare.
Tra le ricette immancabili sulla mia tavola pasquale ancora ci sono tre pietanze importanti: la frittata di asparagi e mentuccia, lo spezzato di agnello al forno e la pastiera di riso.
Frittata di asparagi e mentuccia
Questa frittata si usa nell’antipasto e quello che avanza si conserva e si porta rigorosamente al pic-nic del lunedì dell’Angelo. Prendo 300 g della parte tenera degli asparagi di montagna, li taglio della lunghezza di due centimetri e li metto in padella con un filo di olio e un pizzico di sale. Faccio sfrigolare due-tre minuti e spengo il fuoco. In una boule rompo 20 uova, aggiungo 50 g di formaggio grattugiato e un pizzico di sale, sbatto bene. Poi aggiungo gli asparagi dalla padella, 200 gr di salsiccia secca fatta a dadini, un bel ciuffo di mentuccia selvatica tritata e… Ricordo che - una volta - si usava mettere anche la coratella dell’agnello bollita: ma, per una scelta di gusto della mia famiglia, non la metto più. Unisco tutto e faccio una bella frittata, la cuocio a fuoco lento da ambo i lati. Gli ingredienti possono variare di quantitativo a seconda dei gusti e va servita rigorosamente fredda tagliata a cubetti.
Spezzato di agnello al forno
Questo è in assoluto il Piatto Pasquale che più mi ricorda la nonna, Nonna Mariannina. Per questo piatto si usano le costolette tagliate a pezzetti piccoli. Metto 500 g di agnello in una casseruola con solo una punta di un cucchiaio di sugna e un pizzico di sale, lascio cuocere a fuoco lento per 45 minuti. In una boule rompo 20 uova di media grandezza, aggiungo una bella manciata di formaggio grattugiato, la buccia di due-tre limoni e un pizzico di sale. Sbatto bene fino a formare quasi la schiuma. Ora prendo una teglia di terracotta, la ungo con della sugna e dispongo all’interno l’agnello, ricopro con le uova sbattute e metto in forno preriscaldato a 200° per 30 minuti. Si gonfierà e diventerà un pochino dorato. Lo tengo in caldo fino al momento di servirlo. Porto in tavola la teglia di terracotta così ognuno staccherà da solo il pezzo che desidera.
Pastiera di riso
Quella povera, senza ricotta, con pochi ingredienti che si avevano in casa. Bollo in abbondante acqua salata 200 g di riso, una stecca di cannella e una bacca di vaniglia aperta. Sgocciolo e faccio raffreddare.
Per la sfoglia metto 250 g di farina, due uova intere e un albume, un cucchiaio di zucchero, un pizzico di sale, la buccia grattugiata di un limone e 20 g di sugna o burro. Impasto bene e tiro la sfoglia.
Per il ripieno rompo 7 uova più un tuorlo, aggiungo una fiala di acqua di millefiori, la buccia grattugiata di due limoni, 120 ml di latte e 150 g di zucchero. Sbatto bene il tutto, e aggiungo il riso precedentemente bollito. Intanto imburro una teglia del diametro di 26-28 centimetri, stendo la sfoglia lasciandone un pochino da parte per ricavarne le striscioline da sistemare al di sopra. Verso il ripieno di uova e riso e decoro con delle striscioline di sfoglia intrecciate. Metto in forno preriscaldato a 190° per 50 minuti. La temperatura e il tempo variano sempre a seconda del forno. La pastiera deve risultare dorata e faccio la prova stecchino. A cottura ultimata tolgo dal forno lascio raffreddare, impiatto e faccio una spolverata di zucchero a velo con un pizzico di cannella. #amocucinareperchiamo
Auguri di Buona Pasqua!!!
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Giuseppe aveva solo quattro anni quando per caso vide un video dove si parlava dei bruchi di Macaone. Un giorno è arrivato a casa con una mano piena di bruchi... a dire la verità a me facevano un pochino senso.
Erano tre bruchi di Macaone e mi aveva spiegato di averli trovati sul finocchietto selvatico che stava nell’orto proprio come aveva visto nel video in internet. Che magnifica notizia: avevo trovato chi poteva liberarmi di quegli esserini fastidiosi dal mio finocchietto selvatico. E da questo punto di vista la cosa mi piaceva e... non poco. Mi chiese un barattolone dove metterli e poi andò a recuperare una foglia di finocchietto per farli mangiare. Pensavo fosse finita lì, pensavo fosse solo la curiosità di un bambino, di veder crescere un animaletto diverso dal cane o dal gatto.
La mattina successiva trovammo una spiacevole sorpresa. Il barattolone vuoto, la foglia divorata e... cosa traumatizzante... i bruchi erano spariti. Non sapevo se ridere o piangere, avevamo tre simpatici bruchetti che giravano per casa a nostra insaputa. Come recuperarli? Come scovarli? Giuseppe ebbe l’idea, andò a prendere una foglia di finocchietto fresca e la mise sul tavolo vicino al barattolone vuoto. Nel giro di un’ora tutti i bruchi erano tornati all’ovile. Che bello!!! Con la sua idea aveva risolto un bel problema, rischiavamo di trovare i bruchi su un piatto di spaghetti! Ci voleva assolutamente un tappo al barattolone, ma come?
La curiosità di Giuseppe invece di affievolirsi, crebbe. Iniziò a guardare sempre più video in internet su come allevare i bruchi, finché imparò tutto su quegli insetti bellissimi, coloratissimi, simpatici e ciccioni. Devo dire che mi ha fatto innamorare di quegli esserini buffi e fotogenici. Così ha cominciato con l’allevamento dei Macaoni (Papilio Machaon).
Tutti i giorni andava in giro per l’orto a cercare sui finocchietti selvatici, sul prezzemolo, sul sedano o sulla ruta. Tornava a casa sempre con qualche piccolo tesoro tra le mani: un uovo, un bruco appena nato o un bruco ciccio ciccio pronto per diventare crisalide. Ha provato poi l’allevamento anche di Cavolaie e di Vanessa ma il suo cuore va sempre ai suoi meravigliosi Macaoni.
Il bruco del macaone appena nato è di colore nero con spine sul dorso, tubercoli rossi e una fascia trasversale posta a metà del corpo. Crescendo, fa quattro mute, fino a diventare di colore verde acceso, verde chiaro e a volte sembra azzurrino, con strette bande trasversali nere che si alternano e sono interrotte da macchie arancione. La dimensione finale arriva a circa 5 cm di lunghezza.
Decidemmo di mettere un velo - di quelli dei confetti - con un elastico che lo stringeva sul collo del barattolo. Bene, avevamo risolto. I bruchi divoravano le foglie e facevano tanti ricordini che Giuseppe tutti i giorni toglieva prima di nutrirli di nuovo. Arrivò il momento che i bruchi si trasformarono in crisalidi e poi dopo due settimane vedemmo per la prima volta lo sfarfallamento di una farfalla meravigliosa, bella come quelle delle favole: aveva un volo armonioso, agile, leggiadro, elegante.
Ogni piccolo tesoro trovato era un barattolo, ogni barattolo con il velo sopra e con dentro una provetta con acqua e un rametto di finocchietto per nutrire questi esserini voracissimi. Quando diventavano abbastanza grandi Giuseppe metteva nel barattolo un bastoncino di legno dove poter far impupare il bruco. Tempo due settimane e la crisalide si apriva e vedevamo sfarfallare questa meravigliosa farfalla, una delle più grandi d’Europa, che ha un’apertura alare di ben 8 cm con terminazioni a coda di rondine. Gli esemplari femmina sono leggermente più grandi dei maschi ma lui li riconosce da lontano ormai. Il colore di fondo è il giallo chiaro. Le ali anteriori hanno disegni bruno-nerastri, con una fascia esterna trasversale di colore celeste, che interessa anche le ali posteriori. Queste presentano anche un’evidente macchia a forma di occhio di color rosso-arancio. La parte superiore del corpo è ricoperta di una sottile peluria.
Giuseppe ha nove anni e mezzo e, quindi, da ben cinque anni va avanti questa sua passione che momentanea non era. Chiunque lo conosca sa che ama i bruchi forse più delle farfalle. Sono tre giorni ormai che stanno sfarfallando le sue dodici crisalidi autunnali che erano in “diapausa” letargo invernale, e sono tre giorni che mi sta martellando che vuole una casa delle farfalle. A suo dire è grande a sufficienza per poter gestire tanti insettini tutti insieme: in questi cinque anni ha aiutato a nascere circa quaranta-cinquanta farfalle ogni anno, ed è pronto per una simile avventura. L’anno scorso ha consumato la sua paghetta per compare una teca ed eliminare finalmente i barattoloni. Gli ho detto che per quest’anno può usare la nostra vetrata che dà sul giardino, magari l’anno prossimo, se troviamo i fondi, gli regaleremo la sua agognata casa delle farfalle. Credo che con tutto l’impegno e l’amore che mette in questo suo progetto meriti proprio il suo piatto preferito.
Paccheri al ragù vedovo
Vedovo perché è un ragù che ha subito la perdita della sua amata carne. Una ricetta semplice e squisita arricchita con pecorino e Parmigiano grattugiati. Per la preparazione di questo condimento per i paccheri faccio soffriggere in un tegame di terracotta uno spicchio d'aglio e qualche anello di cipolla bianca nell'olio extra vergine di oliva con l'aggiunta di un pizzichino di peperoncino. Unisco poi dei pomodorini lavati e tagliati a spicchi e faccio cuocere per almeno un’ora con il coperchio a metà, tolgo dal fuoco e aggiungo qualche fogliolina di basilico tritato. Faccio cuocere i paccheri in abbondante acqua salata, li scolo al dente e li verso nel tegame con il sugo aggiungendo Parmigiano e pecorino grattugiati. Giuseppe adora i paccheri così, con questo sugo delicato e al tempo stesso deciso. Sul suo piatto ulteriore spolverata di Parmigiano.
Mini cupcake al cioccolato
Giuseppe adora i cupcake più delle torte, forse perché sono a dimensione di bambino. Inizio mischiando un uovo con 250 g di zucchero, un bicchiere e mezzo di latte intero, mezzo bicchiere di olio di semi di girasole, 200 g di farina, una bustina di lievito vanigliato per dolci e una bella spolverata di cannella in polvere. Amalgamo bene tutti gli ingredienti con una frusta. Verso il composto nei pirottini di carta o di lattice e inforno in forno preriscaldato a 170° per venti minuti circa. Passato il tempo necessario tolgo dal forno e lascio raffreddare, faccio una spolverata di zucchero a velo e cannella.
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Pioggia di petali... macchie di colore... profumi di mimose, di narcisi selvatici, di peonie, di violette, di fresie e violaciocche. Profumi di inizio primavera, percezioni di benessere e di rilassamento generale della testa e del corpo.
Il mio giardino e il mio orto diventano una vera e propria banca dei profumi. In questi giorni noi iniziamo i primi lavori delle colture estive. Abbiamo vangato il terreno e iniziato a piantare patate, cipolle, insalata e piselli. Nel semenzaio ho messo a dimora i semini dei vari pomodori sia da sugo che da insalata, i semi di peperoni, peperoncini, prezzemolo e sedano.
Mi sono sentita immersa nell’immenso profumo non solo dei fiori ma anche delle erbe aromatiche e officinali che ho nell’orto. In questo periodo sembra che sprigionino spontaneamente il loro olii essenziali disperdendo nell’aria questi aromi ed effluvi speciali donandomi serenità, calma e rilassamento generale.
Il profumo della primavera ha un effetto particolare sulle mie emozioni. Mi schiarisce e rinfresca i pensieri, mi dona energia e lucidità mentale, un dolce e gentile bouquet di fragranze. Poi la cosa che più mi dà dell’incredibile è quel meccanismo naturale della mente di recupero delle trascorse emozioni, la memoria olfattiva che mi fa fare dei veri e propri viaggi nel tempo. Quei flashback che mi fanno rivedere e rivivere un ricordo riattivando la stessa emozione che ho provato quando ho depositato per la prima volta – appunto nella mia memoria olfattiva - quel dato aroma o essenza. Quindi spesso mi capita di perdermi nel malinconico e nostalgico spazio che mi riconduce al passato e alle persone che per vari motivi ormai non ho più vicino a me.
Sono distratta dalla realtà e vado in quei luoghi dove solo con l’immaginazione posso accedere, quei luoghi dove ormai sono state rimosse tutte le emozioni negative e dove forse vengono accentuati solo ricordi e situazioni con stati emotivi piacevoli, riuscendo così a combattere anche la solitudine e diventando più speranzosa per guardare il futuro con occhi diversi. In fondo la primavera è... rinascita.
Dopo il lavoro di piantagione gironzolo nell’orto e ne approfitto per godere ancora di più di queste gioie nel raccogliere salvia, melissa, menta e cardi, questo il mio ricco raccolto di prodotti di oggi. Mi soffermo ancora qualche minuto a guardare lo spettacolo straordinario che viene offerto al mio sguardo e al mio animo in questo giorno di primavera e mi appresto ad andare nel mio lab-cucina dove sempre trovo la mia pace e serenità tra i fornelli.
Sformato di cardi
Ho pulito 500 g di cardi, li ho lavati e tagliati a tocchetti piccoli. Man mano che li tagliavo li ho immersi in acqua acidulata con succo di limone per evitare che annerissero.
Li ho sbollentati in acqua e sale, finché non sono diventati morbidi, poi sgocciolati. Li ho insaporiti in una padella con un filo di olio extra vergine di oliva e aglio. A parte ho preparato della besciamella assolutamente senza burro, con solo 50 g di farina e 250ml di latte, regolato di sale e aggiunto anche una grattatina di noce moscata.
Una volta pronta e raffreddata ho aggiunto cinque uova e una grossa patata lessa schiacciata. Ho amalgamato bene, aggiunto anche circa 80 g di Parmigiano grattugiato, poi ho messo i cardi e amalgamato ancora.
Ho versato il composto in uno stampo ricoperto di carta forno. Messo in forno già caldo a 200° per 40 /45 minuti e ho servito caldo.
Fusilli integrali con pesto di noci e salvia
Verso 400 gr di farina integrale sulla spianatoia, impasto con 200 ml di acqua che aggiungo poco alla volta.
Faccio un bel panetto liscio, poi lo divido in tanti rotolini sottili e con l’aiuto di un ferro, quello da maglia va benissimo, schiaccio con delicatezza, di sbieco, un rotolino e lo avvolgo delicatamente al ferretto.
Sfilo poi la pasta che sembra una stella filante e la adagio sulla spianatoia a seccare.
Mentre i fusilli si asciugano preparo il pesto con una trentina di foglie di salvia appena raccolte e lavate in acqua fredda, 10 gherigli di noce, 3 spicchi d’aglio, 80 ml di olio extra vergine di oliva, 50 gr di Parmigiano grattugiato e un pizzico sale.
Io uso un mortaio ma va benissimo anche un frullatore a immersione.
Quando tutti gli ingredienti saranno diventati una crema, vedo la consistenza: se risulta troppo densa aggiungo ancora un filo di olio e amalgamo di nuovo.
Porto a ebollizione una pentola con acqua salata e - appena arriva a ebollizione - metto giù i fusilli per qualche minuto fino a quando tornano tutti a galla. Sgocciolo non benissimo e condisco con il pesto di noci e salvia. Impiatto con una spolverizzata di Parmigiano e in tavola. #amocucinareperchiamo
Ehi, sono Giuseppe!!! io ho piantato dei piselli in un vaso, l’ho messo sul terrazzino e ogni giorno mi prendo cura di quei semi innaffiandoli. La primavera è la mia stagione preferita e quando sento il profumo di un fiore primaverile mi sembra di essere in paradiso. Ora vado, ho dei fumetti che mi aspettano!!!
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Ieri siamo andati al Teatro Tempio con il mio gladiatore e il leone suo compagno!! Le nostre nonne lo sapevano bene quanto era ripido arrivare fino in cima al Monte S. Nicola, dove andavano a raccogliere giornalmente le fascine per il fuoco o per il forno del pane. Forse sapevano anche che lassù c’erano dei resti archeologici ma probabilmente le loro priorità erano talmente diverse da quelle dei nostri giorni che poco facevano caso a dei ruderi.
Loro sapevano vivere a contatto con la natura senza alterarne il prezioso equilibrio. La loro priorità era nutrirsi, avevano un patrimonio di saperi culinari, di specialità locali, di modi di produrre e consumare, di storie legate ai prodotti della terra e ai piatti tradizionali. Io ho sempre cercato di tenere in vita questo patrimonio.
Oggi sto nel mio orticello a raccogliere gli ultimi cavoli cappucci e verze viola di stagione, penso al tempo necessario a produrre un cavolo, prepararlo e poi consumarlo. Coltivare la terra mi riporta ai ritmi semplici della vita, il ritmo lento con l’alternarsi delle stagioni, i cicli di vegetazione delle piante e le regole della natura. La quotidianità calma e ripetitiva ci impegna con tanta fatica, mia e di Giacomo, ma al tempo stesso la condivisione del lavoro conferisce al nostro tempo un valore in più. Il ritmo lento con il quale ci sincronizziamo per vivere meglio.
Qui a casa nostra con il Teatro Tempio del Monte S. Nicola che ci osserva, il tempo rallenta e mi fa riscoprire giorno dopo giorno l’importanza dell’indispensabile, invece del correre per raggiungere il superfluo. Ho preso consapevolezza di ciò che è il cibo e della scala dei valori della mia vita, di come agisco e di cosa scelgo anche di fronte a un semplice piatto di fagioli. Ho trovato il tempo di coltivare una mia nuova passione, contemplare la natura in tutte le sue manifestazioni, inserendomi tra essa e cercando di esserne parte integrante confondendomi tra le sue creature e imitandole il più possibile.
Intanto cerco anche di imitare la mia splendida nonna, mia mamma Anna e tutte quelle donne di altri tempi che hanno custodito per noi l’essenza della terra e i suoi frutti. Sto zappando le file di aglio e penso che nella prima tredicina di giugno dopo averli accuratamente raccolti, seminerò, come facevano loro, i Fagioli della Regina. Certo loro li seminavano vicino al mais così avrebbero avuto dei tutori naturali ma io qua non ho molto spazio e mi limiterò a mettere i tutori. Sono fagioli piccoli e di tradizione Sannita, fioriscono dopo soli 20 giorni dalla semina e pare che solo il terreno di origine Sannita sia buono per lo sviluppo di questo legume.
La tradizione popolare narra che il nome utilizzato per etichettare questo legume risalga a un fatto storico avvenuto nel XVIII secolo quando un certo Achille Jacobelli, noto cavaliere, proveniente dal Sannio di quei tempi, frequentante la corte del re Federico II di Borbone e uomo stimato dalla regina Maria Teresa, un giorno pensò di donarle un sacchetto di fagioli, frutto della sua terra d’origine. La Regina, molto sorpresa dal gesto, volle ringraziare il cavaliere e alla richiesta del nome di quei legumi, Achille Jacobelli rispose: “Mia Regina, questi fagioli, in vostro onore, da oggi in poi, saranno chiamati, Fagioli della Regina”.
A ogni passo che faccio nel mio orto, a ogni erba o pianta che vedo ritorna nella mia mente il ricordo di un racconto o di un episodio legato a essi, sempre gli stessi, raccontati tante volte sempre allo stesso modo solo come gli anziani sanno fare. Anche grazie a loro e ai loro racconti ho imparato a vivere meglio le gioie della natura, anche se ci metto del mio nella trasformazione… Intanto preparo per il mio gladiatore e suo padre un bel centrifugato di mela e verza viola. Uso una mela a pasta acida e uno spicchio di verza viola. Io lo bevo senza zucchero: mi piace sentire il gusto vero.
Ora vado in dispensa a controllare se ho ancora qualche manciata di quei favolosi fagioli!!!!
Zuppa di Fagioli della Regina
Metto in ammollo per 12 ore i fagioli, li risciacquo bene sotto acqua fredda e li posiziono in pentola di terracotta coperti di acqua. Per tre persone cuocio 250 g di fagioli. Aggiungo almeno due porri selvatici tagliati a rondelle, una bella foglia di sedano. Faccio cuocere a fuoco lento per almeno due ore aggiungendo acqua bollente se i fagioli dovessero restare fuori dall’acqua. Passato il tempo controllo la cottura e metto il sale. Preparo dei tocchetti di pane raffermo nei piatti fondi, metto due mestoli di fagioli sul pane e un bel filo di olio extra vergine di oliva. Siamo pronti a degustare questo piatto tutto campano. Secondo Giuseppe sembrano lenticchie con un sapore simile ai ceci. Insomma una delizia!!! Io sul mio piatto trito sempre un pochino di peperoncino piccante.
Insalata di verza viola
Prendo una bella verza viola e la taglio a julienne, la metto in acqua fredda e la lascio riposare un paio di ore. Poi la sgocciolo bene e la condisco con qualche spicchio di arancia dolce a pezzi, una bella manciata di arachidi ovviamente sgusciate, dei rametti di finocchietto di mare sott’aceto. Condisco con sale e olio extra vergine di oliva. Trovo che sia un bellissimo contorno invernale, fresco e dal gusto agrodolce.
Involtini di cavolo cappuccio
Per pulire facilmente il cavolo cappuccio senza rompere le foglie, elimino prima il torsolo inferiore, poi passo sotto l’acqua corrente, in questo modo le foglie si apriranno più facilmente e non devo fare forzature, rischiando di romperle. Scelgo le foglie più grandi e resistenti per formare i miei involtini. Le lavo e le sbollento in acqua salata, due alla volta, per circa 5 minuti. Scolo con una pinza da cucina, le trasferisco su un canovaccio e le lascio raffreddare. Metto in una ciotola pancetta a cubetti, salame e scamorza a pezzetti, parmigiano, uovo, prezzemolo tritato, aglio, erba cipollina e della mollica di pane bagnato. Mescolo gli ingredienti con le mani fino ad amalgamarli bene. Metto qualche cucchiaiata di composto sulle foglie di cavolo cappuccio e avvolgo per realizzare gli involtini; li chiudo legandoli con una foglia di erba cipollina. Li adagio in una teglia rivestita di carta forno e metto in cottura per 25 minuti a 220°.
In inverno, più delle altre stagioni, il cielo sembra essere pieno di strade e ponti, di emozioni e di pensieri, di scie di uccelli e di delicate carezze di nuvole. In inverno l’orizzonte sembra più irraggiungibile anche se la mia mente ha voglia di mettere le ali e raggiungere quel confine invalicabile, quel punto dove ho nascosto i desideri difficili da realizzare. Per fare ciò cerco sempre nuovi punti da dove scrutarlo e da dove potrebbe essere più facile spiccare il volo. Quindi devo cercare un nuovo punto di osservazione.
Ieri ho fatto il pane e i taralli al finocchietto. Oggi giornata assolata di febbraio, io Giuseppe e Giacomo abbiamo riempito lo zaino del pic-nic, possiamo andare!! Partiamo quasi sempre a piedi da casa e andiamo dove ci porta il cuore, sempre. Difficilmente organizziamo un percorso, lo improvvisiamo, ci piace di più, ce lo gustiamo di più. Zaino in spalla e iniziamo ad andare, percorso difficile e ripido almeno per il mio allenamento, arriviamo in cima a monte Sant’Angelo, Marzanello, pochissimi chilometri da Pietravairano. Ci sono vari resti di antichi insediamenti sanniti e lunghe mura megalitiche. Per noi uno spettacolo che profumava di storia, abbiamo osservato e accarezzato ogni singola pietra quasi a voler percepire attraverso esse le vicende vissute in quel luogo ormai dimenticato.
Oltre la storia, lassù, c’è un panorama mozzafiato e in inverno con una giornata assolata sembra essere circondato da magia. I miei occhi vanno lontano all’orizzonte e osservano il cielo che si confonde con la terra lontana cercando di svelare cosa c’è oltre l’infinito. Cerco nell’orizzonte ciò che forse ho nel profondo del cuore, cerco di vederlo bene, di scoprirlo, di osservarlo. Difficile da descrivere.
Mi distraggo osservando la natura intorno: un terreno arido, poca vegetazione, brullo, solo qualche anemone stella. Secondo Plinio il Vecchio, lo scrittore e naturalista che morì durante l'eruzione del Vesuvio, nel 79 d.C. indossare il primo anemone stella dell'anno, avrebbe avuto il potere di allontanare tutte le negatività. Forse oggi non capirò cosa c’è oltre l’orizzonte o in fondo al mio cuore ma sicuramente avrò una giornata positiva, sempre secondo Plinio!!! Facciamo merenda e dopo qualche foto iniziamo a scendere, il cammino è lungo e il giorno è ancora corto. Scendendo trovo dei porri selvatici, febbraio è il mese giusto per raccoglierli, non sono molto grandi ma profumatissimi. Più avanti trovo delle piantine di ruta e anche di queste raccolgo qualche cima tenera, ha un profumo per nulla accattivante ma ho finito la mia acquavite alla ruta e devo rifarne altra. Pianta curativa, non ne conosco tutte le proprietà ma di sicuro conosco il detto “uogliu cauru e ruta ogni mal’ astuta”: si usava mettere in infusione nell’olio d’oliva caldo le foglie di ruta per poi fare i massaggi. Olio dall’odore molto caratteristico. Questo comunque è uno degli aspetti che amo nelle mie passeggiate: prendere i regali della natura. Arriviamo a casa che è ancora giorno per fortuna. Devo pensare ad una cena più sostanziosa rispetto al pranzo, vado nell’orto, mi verrà qualche idea. Trovo due carciofi, farò un risotto.
Risotto carciofi e porri selvatici
Tolgo le foglie dure e le punte dai carciofi, le lavo e le metto in una pentola con le code dei porri, due foglie di sedano, una carota e un quarto di cipolla e faccio il brodo. Taglio a pezzetti i carciofi, due porri selvatici, e un quarto di cipolla, metto olio di oliva e faccio appassire. Verso quindi 300 g di riso, mescolo e bagno con 1/2 bicchiere di vino bianco, faccio evaporare bene su fiamma vivace e unisco qualche mestolo di brodo bollente. Mescolo bene e porto a cottura il riso per 20 minuti a fuoco moderato aggiungendo il brodo bollente poco per volta quando si asciuga e mescolando spesso in modo che il risotto non si attacchi sul fondo. A fine cottura faccio asciugare il brodo e tolgo dalla fiamma. Manteco il risotto con una noce di burro e parmigiano, spolvero con ciuffetto di prezzemolo tritato e servo subito. Inutile raccontarne il profumo...
Taralli al finocchietto (come li faceva mia nonna Mariannina)
Un kg di farina, 250 ml di olio evo, due bicchieri di vino bianco, tre cucchiaini di sale, due bustine di lievito di birra secco (mia nonna usava il “criscito” alias lievito madre), se occorre un pochino di acqua, un cucchiaio di finocchietto selvatico. Impasto tutto ben bene fino a far diventare liscio l’impasto. Lo faccio lievitare due ore. Faccio i taralli e li metto in fila sul tavolo di legno. Il passo successivo, se vogliamo che vengano belli lucidi, è quello di farli cuocere in acqua bollente, basta immergerli e aspettare che vengano a galla. Una volta tolti, li scolo per bene e lascio asciugare su un canovaccio pulito. A questo punto li metto in una teglia con carta forno, via in cottura a 200 gradi per venti minuti, forno ventilato. Saranno profumati e croccanti e pronti per essere accompagnati ad un buon bicchiere di vino rosso.
Acquavite alla ruta
Prendo i rametti di ruta e li lavo accuratamente mettendoli in immersione in acqua fredda. Asciugo le foglioline delicatamente con un panno di cotone. Inserisco i ramoscelli nella bottiglia di acquavite e li lascio in infusione per almeno due mesi. La bottiglia chiusa deve stare in un luogo asciutto e al riparo da fonti di calore. L’acquavite assorbirà in modo graduale l’aroma e il colore della ruta, passando da un verde più chiaro ad un verde più acceso, qualcuno mi ha detto che sembra diventare di plastica. Se l’aroma è troppo intenso tolgo alcuni ramoscelli ma ne lascio solo uno piccolo nella bottiglia, manterrà il profumo dell’acquavite sempre fresco e dal colore verde chiaro pallido. Sarà un ottimo digestivo da gustare sempre in compagnia, perché bere da soli mette tristezza. #amocucinareperchiamo
Oggi fa terribilmente freddo, non ho acceso la stufa stamattina perché c’era il sole a scaldare la mia splendida vetrata ma non appena il sole si è nascosto dietro la nostra sontuosa torre medievale tutta la casa è diventata gelida. Mi sono affrettata a prendere la legna e subito ho acceso… Ma prima che arrivi a temperatura ci vuole un pochino di tempo e io starò qua a guardarla quasi a volerla scaldare io...
Tra le altre scelte ecologiche e sostenibili che abbiamo fatto nella nostra vita e nella nostra casa è quella del riscaldamento. Certo abbiamo anche la caldaia a gas che programmo quando non siamo in casa o programmo per la mattina così quando ci svegliamo troviamo il tepore che ci dà la carica per iniziare un’altra giornata. Quando invece sono a casa preferisco la stufa a legna: è di quelle con la caldaia che attivano i termosifoni e il termoconvettore nella vetrata. In più con questa stufa ho sempre acqua calda per i sanitari, ci posso cucinare sopra e ha anche un fornetto molto molto comodo.
Insomma oltre al calore della fiamma abbiamo dato anche un tocco di romanticismo alla nostra casetta avendo così l’atmosfera calda che ricorda le vecchie case di campagna.
Ecco, sta arrivando a temperatura, ma io sento ancora molto freddo. Sarà uno di quei pomeriggi malinconici e nostalgici. Mi siedo sulla sdraio con il mio lavoro a uncinetto che stento a finire. Forse non mi entusiasma più ma ho iniziato e devo finire.
Forse riesco a capire cosa mi succede oggi, ho freddo al cuore. Troppo tempo ormai stiamo trascorrendo chiusi in casa e lontano da chi ci ama. Troppo tempo in silenzio, in solitudine con il bisogno di abbracciare e di stare in mezzo alla gente. Questo isolamento purtroppo sta creando delle profonde cicatrici nel nostro animo e probabilmente il tempo ne cancellerà il dolore ma non il segno.
Il calore che non sento e che mi dovrebbe riscaldare il cuore non è quello del fuoco ma quello che viene da un abbraccio tanto desiderato in questo periodo storico. Un abbraccio che ha effetti benefici sul benessere psico-fisico di tutti. Quell’abbraccio che non possiamo né dare né ricevere da un anno ormai. L’abbraccio che rafforza i legami, trasmette amore, dà sostegno, accoglienza, protezione.
Mancano gli abbracci e con loro anche il calore al cuore che essi producono. Ecco da dove viene il mio freddo interiore. Devo reagire, non posso permettermi questo freddo, adesso che rientra Giuseppe lo avvertirà e non posso permettermelo, devo essere forte e proteggerlo. Devo pensare positivo. Mi do una scrollata e preparo uno spuntino e poi una cena speciale. Ieri ho confezionato della marmellata di cedri con lo stesso procedimento della marmellata di mandarini ma aumentando decisamente la quantità di zucchero da 900 grammi per 2 kg, ho messo lo stesso quantitativo tra cedro e zucchero. Farò dei cracker spalmati con formaggio morbido e una puntina di marmellata di cedro e delle freselline con olio aromatizzato al cedro. Hmmm! Ottima idea!! E per cena uno stupendo risotto leggero alla zucca
profumato al cedro, il pensiero del colore arancio già mi ritempra. Farò petto di pollo alla brace e per contorno?...
Insalata di cedro e cucunci
Mi serve un fresco contorno per il petto di pollo!!! Farò un’insalata di cedro e cucunci. Lavo un bel cedro di media grandezza lo asciugo e ne ricavo delle fettine sottili. Dissalo i cucunci tenendoli sotto acqua corrente per qualche minuto, li affetto e unisco al cedro. Condisco con sale e olio extra vergine di oliva. Bella fresca e profumata.
Olio aromatizzato al cedro
Per aromatizzare un litro di olio extravergine di oliva, ho bisogno di un paio di cedri biologici.
Il procedimento è semplicissimo e in pochissimo tempo potrò creare un olio dal sapore e dal profumo unico e delizioso. Lavo bene i cedri, li asciugo e rimuovo la scorza, la parte gialla, rimanendo in superficie e facendo attenzione a non rimuovere anche la parte bianca della buccia perché è un pochino amara. Una volta tolta la scorza la riduco in pezzetti piccolissimi che inserisco nella bottiglia, aggiungo l’olio extravergine e lascio riposare una settimana. Trascorso questo tempo necessario elimino le scorzette e l’olio sarà pronto per deliziare i palati di tutta la mia famiglia.
L’olio aromatizzato al cedro è ideale per il condimento di piatti freddi, secondi di pesce e carni arrosto ma io l’adoro anche semplicemente sulle freselline o sulle bruschette.
Risotto leggero alla zucca profumato al cedro
Inizio con il brodo vegetale: lavo, pulisco e affetto una carota, una cipolla, due gambi di sedano e un pezzetto di buccia di cedro. Metto le verdure in una casseruola e copro con acqua senza sale. Cuocio per circa un’ora con coperchio da quando inizia il bollore. A fine cottura filtro il brodo e lo mantengo in caldo.
Lavo e taglio circa 500 g di zucca ricavandone dei dadini. Trito una cipolla finemente, la metto in un tegame dove ho fatto scaldare dell’olio extra vergine di oliva e lascio soffriggere la cipolla fino a farla dorare. Dopodiché aggiungo la zucca e la faccio rosolare bene. Poi aggiungo a questo punto un po’ di brodo e porto la zucca a cottura. Ci vorranno circa 20 minuti.
In una padella ampia invece tosto 300 g riso (sto preparando per tre persone) con un filino di olio evo girandolo spesso. Sfumo con un pochino di vino bianco e mescolo in continuazione per non farlo attaccare. Quando il vino sarà evaporato verso il riso nel tegame dove ho preparato la zucca e mescolo sempre. Quando il riso inizia ad asciugarsi aggiungo altro brodo vegetale e prima del raggiungimento della cottura che impiegherà altri 20 minuti circa, aggiungo anche un bicchiere di latte intero. Regolo di sale e, a fuoco spento, aggiungo abbondante parmigiano grattugiato mantecando. Aggiungo un ultimo mestolo di latte intero e lascio rapprendere prima di impiattare il mio gustosissimo risotto. Manca l’ultimo tocco dopo aver impiattato: spolvero ancora con parmigiano e una bella grattugiata di buccia di cedro, con il calore del risotto si sprigionano gli olii essenziali della buccia e il suo profumo penetrante arriva fino al cervello facendoci pregustare un boccone davvero prelibato.
Cedro candito
Innanzitutto lavo bene, spazzolando sotto acqua fredda i cedri e poi ne ricavo le scorze. Le metto in una larga casseruola, coperte d'acqua e faccio bollire 5 minuti. Tolgo dal fuoco e lascio raffreddare nella loro acqua di cottura. A questo punto le scolo perfettamente nello scolapasta. Devono essere veramente ben scolate. Ora peso! Lo stesso peso delle scorzette, lo stesso di acqua e lo stesso di zucchero. Ad esempio un kg di scorzette scolate, un litro di acqua e un kg di zucchero. Porto a bollore l'acqua con lo zucchero, facendolo sciogliere perfettamente. Immergo le scorzette e faccio bollire 3 minuti. Spengo, lascio raffreddare e riporto a ebollizione per altri 3 minuto e lascio raffreddare per una notte intera. L’indomani riporto a ebollizione per 2 minuti ancora e faccio raffreddare. A questo punto trasferisco le scorzette, prelevandole con una pinza dallo sciroppo che si sarà formato, su carta forno, ben distanziate. Faccio asciugare in forno o nell'essiccatore a 40°C per circa 6/8 ore. Le scorzette sono pronte, le conserverò in vasi di vetro, anche per 6 mesi a temperatura ambiente. Lo sciroppo avanzato è ottimo per profumare dolci e crostate. Lo verso in un barattolo di vetro e lo conservo in frigo.
Ne avevo le tasche piene!!! Sì... da bambina avevo sempre le tasche piene di mandarini e ancora oggi sono tra i miei frutti preferiti. Amo il loro dolcissimo e tenero profumo che mi fa balzare alla felicità e alla spensieratezza di quando ero bambina. Il loro profumo mi riporta alle feste con i parenti, agli incontri delle famiglie di quando si ammazzava il maiale e noi bambini prendevamo di nascosto i mandarini che sarebbero serviti per profumare la carne e le budella. Il loro profumo mi riporta agli inverni di quando sempre noi bambini non sentivamo il freddo gelido ma solo la gioia di correre felici e saltare nei fossi pieni di ghiaccio. I mandarini sono così: sono gioia, sono fanciullezza, sono spensieratezza, sono profumo, sono il bambino che è in noi.
Questo piccolo frutto tondo e di un arancione caldo come il sole al tramonto mi infonde gioia di vivere ancora oggi e... credo sempre sarà così!
Nel nostro terreno ne abbiamo alcune piante, non so esattamente il loro nome botanico o la varietà so che sono mandarini e il mio cuore come il mio cestino è pieno di gioia da novembre ad aprile. Mandarini a più non posso, da mangiare semplicemente sbucciati, da aggiungere alle macedonie e alle insalate, le bucce usate come profuma-ambienti, oppure accuratamente essiccate e tritate si possono conservare nei barattoli e utilizzare per aromatizzare le bollenti tisane invernali. Quindi oltre all’utilizzo in svariate preparazioni trovo anche il sistema per conservarne abbastanza per il resto dell’anno.
Hei... Psssss... sono Giuseppe vorrei dirvi che il mandarino è sempre stato il mio frutto preferito.
Mi piace perché all’inizio ha un gusto aspro però poi è dolce proprio come mamma.
Vado sempre a raccoglierli con mamma e papà ma inevitabilmente ci seguono i miei gattini: Batcat, Cannella e Ciccino (gli ultimi due gatti sono i più capricciosi).
Ah, dimenticavo, li porto sempre nello zainetto quando vado a scuola calcio o facciamo le escursioni.
Scamorza al mandarino
In inverno con il camino acceso l’uso della brace è d’obbligo e non è detto che brace significhi carne. Un modo semplice e simpatico di fare la scamorza, quella buona che sa di latte di mucca, è alla brace con buccia di mandarino. Lavo bene un mandarino, lo sbuccio e taglio tipo julienne la buccia. Taglio a fette spesse la scamorza e le schiaccio da ambo i lati sulla buccia di mandarino a julienne, metto sulla griglia e appena vedo che comincia a sciogliersi giro velocemente. Servo caldissima con pane abbrustolito. Semplice e profumata la mia scamorza e, mentre si scioglie in bocca, si sprigiona tutta l’intensità dell’aroma degli olii essenziali che uniti al gusto del latte della scamorza creano un’armonia perfetta. A volte avendo il camino spento e non avendo molto tempo ho provato anche su una bistecchiera rovente, il risultato è stato comunque molto buono.
Insalatina invernale
Ho ospiti improvvisi e sinceramente non molte cose in frigo, una qualsiasi cena che si rispetti senza una fresca e colorata insalata risulta essere un pochino triste. Ho solo mezzo radicchio, l’ultimo del mio orto. Troppo poco!!! Allora mi invento questa insalatina con radicchio rosso tipo Treviso, spicchi di mandarini privati della pellicina in eccesso e dei semini, gherigli di noci, sale e olio evo. Devo dire che ha riscosso successo oppure non hanno avuto il coraggio di dire che non era buona? Fatto sta che l’hanno divorata e, a dire il vero, anche a noi è piaciuta molto.
Mandarinetto o liquore al mandarino
Come si vuole chiamare si chiama, resta il fatto che è fantastico. Si è capito che adoro anche i liquori? E che adoro farli? Beh, credo proprio di sì. Che siano mandarini appena raccolti e soprattutto naturali, senza alcun tipo di trattamento.
Per due litri di mandarinetto: la buccia di 40 mandarini, un litro di alcool, un litro di acqua, 700 g di zucchero semolato. Per preparare il mio mandarinetto (o liquore al mandarino) lavo accuratamente i mandarini, pulendo le bucce da eventuali impurità. Taglio la scorza dei mandarini con un pelaverdure, devo cercare di prelevare solo la parte arancione, eliminando quella bianca, che potrebbe risultare un pochino amara. Metto tutte le bucce in un grosso barattolo, aggiungo l’alcool e mescolo bene.
Copro con cura e lascio macerare per tre settimane. Trascorso il tempo necessario, in una pentola faccio lo sciroppo di acqua e zucchero, facendo sobbollire per 10-15 minuti dando consistenza allo sciroppo. Poi, faccio raffreddare completamente lo sciroppo. A questo punto aggiungo le bucce e l’alcool, lasciando riposare il tutto ancora 20 minuti. Poi filtro il liquore e lo imbottiglio. Il mio mandarinetto è pronto, lo lascio riposare un mese prima di consumarlo.
Lo servirò ben freddo, dopo pasto magari in accompagnamento a una bella crostata di frutta.
Marmellata di mandarini
Certo che se non preparo la mia marmellata di mandarini le mie amiche Maria, Violetta e Perla questa estate quando verranno a Pietravairano come faranno colazione? Loro adorano questa mia marmellata più delle altre, dovrò farne qualche barattolo in più quest’anno!
Raccolgo due kg di mandarini, belli maturi e profumati, li lavo accuratamente li taglio a metà e ne faccio una bella spremuta. Il succo lo metto in una pentola con 900 g di zucchero semolato e porto ad ebollizione a fuoco lento. Prendo la metà delle bucce, le bollo in acqua con un pizzico di sale, le sgocciolo e le faccio raffreddare. Le taglio a striscioline sottili e le verso nello sciroppo di succo e zucchero. Alzo la fiamma e faccio cuocere fino a quando lo sciroppo diventa trasparente. Faccio la prova di un cucchiaio di marmellata versato su un piatto, se raffreddandosi diventa densa vuol dire che è pronta. A questo punto prendo i barattoli ben sterilizzati li riempio con la marmellata bollente e li tappo bene posizionandoli a testa in giù. Una volta raffreddati saranno pronti per essere messi in dispensa o... regalati!!
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Tempo fa comprai un mulinetto a pietra di quelli casalinghi per avere la farina fresca ogni volta che la desideravo.
È comodo, lo uso per macinare tutti i cereali e legumi che voglio far diventare farina. Insomma coltivare questo mais è un gioco da ragazzi! Niente cervello, tanto amore, tanta passione, tanto lavoro e tutto questo per mangiare un sano piatto di polenta. Piatto povero dei poveri per eccellenza eppur tanto ricco di storia, forse per questo è rimasto nella nostra tradizione. Il mais è nato praticamente con l’uomo e seppure in Europa è arrivato con Cristoforo Colombo, ha subito conquistato i nostri campi e le nostre tavole. La farina di mais era cibo quasi quotidiano, a volte si mischiava ad altre farine a seconda delle possibilità, per farne farinate e pane, anche se di scarsa sostanza.
Fine autunno!!! Quasi inverno!!! Passeggio sui miei terrazzamenti, sento profumi caldi che non hanno niente da invidiare come intensità ai profumi primaverili. Ci sono i profumi delle rose autunnali, ultimo regalo della stagione. Il più intenso che si sente è quello delle mele cotogne ma ci sono anche i fiori di nespolo che ancora ospitano migliaia di apine bottinatrici che fanno incetta di nettare per affrontare i rigidi freddi invernali. Più in là il mio piccolo agrumeto con clementine, mandarini, arance e limoni si riempiono di profumati frutti. Flaffy (la cagnolina) mi sorveglia dall’alto. Bene, la cosa che più mi rilassa è raccogliere i frutti dagli alberi. Decido di raccogliere mele cotogne e arance, dovrebbero bastarmi a tenermi impegnata con lavori di trasformazione e conservazione un paio di giorni.
Sicuramente la prima cosa che faccio è una bella spremuta, fresca, energizzante e dissetante. In più teniamo alte le difese immunitarie.
Le bucce le metto in acqua fredda in attesa di decidere cosa farne. Nel mio vocabolario non esiste la parola buttare, neanche se sono solo bucce.
Cotognata
Metto le mele cotogne in una bacinella piena di acqua, le lavo accuratamente strofinandole e togliendo tutta la peluria che le ricopre. Le faccio asciugare e inizio a farne pezzi con tutta la buccia. Le metto in una pentola con due dita di acqua, copro e lascio cuocere bene. Una volta cotte le frullo e le peso, unisco zucchero per la metà del loro peso e il succo di un limone.
La buccia del limone la unisco a quelle delle arance. A questo punto faccio cuocere questa purea a fuoco lento, rigirando in continuazione per evitare che diventi fumosa e bruciacchiata. Quando inizia a cuocere il colore vira da giallo intenso a rosa, quasi corallo. A questo punto posso decidere se imbarattolare e avere una stupenda confettura oppure far cuocere ancora, quindi far asciugare fino a quando si stacca dal fondo della pentola, per poi metterla in uno stampo basso uno o due centimetri rivestito di carta forno. Faccio asciugare al sole la purea per tre o quattro giorni, o una settimana, fino a quando ha l’aspetto e la consistenza di una splendida gelatina.
Quando si è addensata abbastanza per toglierla dallo stampo la sformo e la rimetto al sole ancora per qualche giorno per farla rassodare ancora un po’. Devo fare attenzione che le api, le vespe e altri insetti potrebbero deliziarsi della mia splendida “cotognata”, allora ci metto sopra un velo o un telo sottilissimo, troppa fatica ho fatto per regalare questa delizia ai miei piccoli amici.
Non ci credo!!! Sempre emozionante... ho realizzato la mitica “cotognata”. La taglio a cubetti e la metto in su un vassoio, non durerà tutto l’inverno, troppo buona, troppo golosa, un sapore unico e genuino che non si dimentica facilmente. Resterà persistente dentro di noi per un anno intero fino alla prossima produzione.
Marmellata di bucce di arance
Ieri ho lasciato in ammollo le bucce di arance e limoni, le sgocciolo e le sciacquo con acqua corrente, togliendo eventuali residui di pellicine della polpa interna. Poi le metto in una pentola capace e le ricopro di acqua. Porto a ebollizione e faccio bollire per mezz’ora. Sgocciolo e faccio raffreddare.
Le passo in un mixer e trito tutto. Le peso per capire quanto zucchero usare. Preparo uno sciroppo in una pentola: tanto peso di zucchero quante sono le bucce e un po’ di acqua. Faccio sciogliere e quando fa le bollicine metto tutte le bucce tritate e giro ogni tanto con un cucchiaio di legno, avendo cura di non far bruciare la marmellata. Giro fino a quando non sarà bella densa. Il composto finale ha la consistenza di una marmellata molto densa e grumosa.
Come ogni degna marmellata la metto in barattoli di vetro sterilizzati e che si chiudano ermeticamente.
Colorata e profumata la userò per ricche colazioni o arricchire e profumare dolci. Qualche barattolo sicuramente lo regalerò a persone che amo.
Roccocò
Mancano pochi giorni a Natale e nonostante sarà molto diverso dagli altri anni non posso assolutamente non preparare qualche dolcetto della nostra tradizione. Comincio dagli struffoli? No troppo presto!! Visto quella bella marmellata di bucce di arance fatta l’altro giorno potrei fare i Roccocò. Sì! Farò proprio i Roccocò per la gioia di Giacomo (la mia metà) e Giuseppe (mio figlio). Giacomo è golosissimo di dolci, mi toccherà nasconderli per conservarli fino a Natale. Giuseppe non ama molto i dolci ma questi dice che sono speciali perché hanno il profumo di festa. Credo abbia ragione: hanno proprio il profumo di festa.
Bene, all’opera!!! Siccome li faccio solo una volta l’anno ho bisogno del mio librone di ricette.
Preparo il tavolo di legno con un kg di farina bella setacciata, 400 g di zucchero, 200 g di miele, 200 g di nocciole tostate e ci vorrebbero 100 g di mandorle ma ahimè... quest’anno non ho mandorle del mio giardino, la gelata tardiva le ha bruciate. Non mi preoccupo però, ho le mandorle amare prese dai noccioli di albicocche. Ne metterò solo 30 g, hanno un profumo intenso e non si può esagerare con le dosi anche per il loro leggerissimo contenuto di cianuro. Le faccio tostare velocemente nel fornetto della stufa a legna. Trito nel mortaio sia le nocciole che le mandorle amare. Ora aggiungo una bella grattugiata di noce moscata, una quindicina di chiodi di garofano macinati e macino anche una bella stecca di cannella.
Apro il barattolo di marmellata di bucce di arance e ne uso due cucchiaiate, ci siamo!!!! Manca solo l’ammoniaca ne bastano 4 g, mi piacciono se vengono un pochino duri se li voglio più morbidi metto 8 g di ammoniaca.
Impasto il tutto con acqua, l’impasto deve risultare morbido. È un pochino appiccicoso ma con l’aiuto di un po’ di farina riuscirò nell’impresa. Faccio delle ciambelline che metto su una teglia a bordi bassi ricoperta di carta forno. Spennello con tuorlo d’uovo e cuocio a 180° per dai quindici ai venti minuti.
Il tempo dipende dal forno: statico o ventilato. Io uso quello della stufa a legna. #amocucinareperchiamo
Sono sempre in compagnia di qualche esserino, stasera Lola la gattina di Giuseppe mi aiuta a scrivere.
Hei... Psssss... sono Giuseppe, la prima cosa che ho fatto quando ho sentito il profumo dei Roccocò è stato uno starnuto. Un profumo troppo intenso per il mio naso di soli 9 anni. Comunque il profumo è quello della festa. #adoroimacaoni
Sin da bambina ho una scena impressa nella testa. Mia madre quando sapeva di dover fare il pane l’indomani, andava in giro per i campi con il suo cesto, lo riempiva di biete selvatiche e borraggine per poi farne una deliziosa torta di verdure, il “Caniscione”.
Oggi ogni volta che prendo lo stesso cesto e vado in giro a raccogliere erbe, sembro lei e mi guardo con gli occhi di quella bambina che era curiosa di sapere e conoscere tutti i segreti di quella mamma sapiente, di quella cuoca che con poche cose era in grado di fare pranzi luculliani, con quella passione e quell’amore che ha solo chi ama.
Il pane che si faceva allora in casa non si fa più o meglio non si fanno più quei quantitativi. Nel forno di casa ci andavano dai nove ai dieci pezzi di pane di due kg e più, la teglia con la pizza arreganata, la teglia con il caniscione di verdure, se mamma era in vena anche quello con salsiccia e uova, e la teglia con le patate al forno a spicchi con la cipolla. Insomma si cucinava per una settimana e il pane durava per due settimane. Il caniscione comunque non mancava mai nei periodi delle feste natalizie e di fine anno.
Ho sempre degli spettatori anche io, oggi è il turno del mio cagnolone e di mio figlio: Rudy e Giuseppe.
Io oggi se faccio il pane non faccio il Caniscione, quindi se lo voglio fare devo preparare un impasto a parte. Uso farina tipo 2, la preferisco un pochino grezza: ha più sapore. Quindi 500 g di farina, 300 g di acqua, un pizzico di sale e 3 g di lievito di birra fresco, se voglio una lievitazione lenta; se ho poco tempo metto più lievito e la lievitazione sarà più veloce. Intanto mi preparo le mie erbette selvatiche per il ripieno: biete selvatiche e borragine. Le lavo accuratamente, sono selvatiche e in genere piene di terriccio, le sbollento in poca acqua e sale, le sgocciolo bene e condisco con capperi dissalati, filetti di alici sott’olio, olive denocciolate, olio, aglio e a volte aggiungo anche un pizzico di peperoncino o gherigli di noce a seconda della disponibilità.
Intanto l’impasto è lievitato. Quindi oleo bene una teglia rotonda, faccio uno strato di impasto mantenendolo alto sui bordi, metto le verdure condite e sistemo un altro strato di impasto, chiudo bene i bordi, bucherello con una forchetta, faccio un giro di olio e inforno a 250 gradi per 20 minuti.
Una volta cotto, lo tolgo dalla teglia e lo lascio raffreddare prima di servirlo. Lo mangio da quando ero piccola ma il suo profumo e il suo sapore mi lasciano sempre sorpresa di quanto possa essere buona una pietanza preparata a costo quasi zero. #amocucinareperchiamo
Psssssss... sono Giuseppe, ho aiutato anche io mia madre a cercare le erbette selvatiche, anche se a dir il vero ho giocato con Rudy e ho guardato attentamente sotto le foglie per trovare qualche bruco da salvare. Ho trovato solo una mantide, ha l’addome piatto ed è molto esile, credo sia un maschio, il suo nome sarà Jeremi. La porterò a casa e giocheremo insieme, ho già qualche idea. #amoimacaoni
Ne avevo sempre sentito parlare ma evidentemente nessuno del mio paesello aveva preservato questo piccolo legume dal colore caffè intenso. Parlo dei ceci neri, legumi che pare esistessero già all’età del bronzo. Ne parlavano come una leccornia, un chicco dolce, aromatico e saporito, un piccolo tesoro dalla consistenza vellutata che aiutava ad affrontare i freddi inverni anche grazie alle sue straordinarie proprietà, infatti sono ricchissimi di sostanze nutritive e pare che mangiati regolarmente apportino numerosi benefici al nostro corpo.
Ebbene una quindicina di anni fa ero in un paesino qua vicino e mi trovai per caso a parlare con un vecchino, “Zi Gennarino”: tra i tanti suoi affascinanti e travolgenti racconti spuntarono come una cometa i ceci neri. Non mi sembrava vero, il mio sguardo si illuminò e cominciai a soffermarmi su quello che per lui era solo un piccolo particolare insignificante del suo racconto.
Raccontava che nel dopoguerra la meccanizzazione e le colture intensive avevano reso poco redditizia la coltura del cece nero e quindi si è andata perdendo sempre più quella tradizione così viva nei suoi ricordi. Vivevo quel racconto con una vena di romanticismo, Zi Gennarino ne parlava come se li avesse mangiati il giorno prima. A un certo punto, vista la mia insistente curiosità, mi disse «ma i vulet v’ré?».
Lui era uno di quelli che avevano continuato a coltivarli nonostante il mercato avverso a questo legume. Per lui era parte del suo DNA, parte del suo essere vivo in questo mondo che non riconosceva più ma che aveva imparato ad accettare e a sopravvivervi. Me ne regalò un paio di manciate. Erano diversi dai ceci bianchi e non solo per il colore, erano molto più piccoli, dalla pelle rugosa e ad occhio coriacei ma al tempo stesso sembravano rivestiti di velluto e in cima sembravano avere un piccolo uncino. Insomma erano proprio simpatici. Tornai a casa con questo tesoro tra le mani.
Ero indecisa se cucinarli e sentire con tutti i miei sensi quella straordinaria prelibatezza che veniva da lontano ed era sopravvissuta a tutta l’umanità o seminarli? Non ebbi dubbi, aspettai il mese di marzo e li seminai. Non mi reputo una contadina esperta, quindi pregai affinché quel tesoro germogliasse e desse i suoi frutti. Così fu. Ebbi una buona germinazione, un’ottima fioritura (di colore lilla) e infine anche una discreta produzione. Certo il lavoro è stato duro, tutto a mano compreso raccolto e pulitura che è veramente un atto di amore per come è difficile. Il baccello quando si apre si arrotola su sé stesso e racchiude i due ceci contenuti, bisogna aprirli tutti a mano. Ma quanto ero felice? Ero riuscita a coltivare un “fossile”. Ora necessitava assaggiarli.
Zi Gennarino si raccomandò di tenerli in ammollo due giorni prima di cuocerli.
Inizia il mio viaggio nel passato. Dopo averli tenuti in ammollo, li sciacquo bene in acqua corrente e li metto a cuocere in una casseruola alta, ricoperti di acqua. A quel punto vado a intuito! Inserisco un gambo di sedano con tutta la foglia, un pochino di cipolla tritata bene e un paio di spicchi di aglio anch’essi tritati. Poi, procedo con la cottura a fuoco lento come faccio normalmente anche con i ceci bianchi. Dopo un paio di ore, a cottura ultimata, regolo di sale e decido di servirli semplici così solo con un filo di olio extra vergine di oliva e sul mio piatto ovviamente un pochino di peperoncino ( lo adoro ). A distanza di quindici anni i ceci neri sono entrati a pieno titolo nella coltivazione di famiglia. Giuseppe li adora, Giacomo adora tutto ciò che produciamo noi, dice che sanno di amore.
In estate ne faccio belle e colorate insalate, dopo averli lessati e sgocciolati li condisco con pomodori, portulaca, basilico, aglio sale e olio. A volte aggiungo anche zucchine tagliate a julienne e marinate, cetriolini a fette e coste di sedano. Insomma la fantasia la fa da padrone nelle insalate estive, l’importante è l’ingrediente base: “i ceci neri”.
Ieri invece ne ho fatto polpette. Giuseppe li adora ma i ragazzini spesso mangiano con gli occhi, hanno bisogno di sfiziosità e io cerco di dargliele con ingredienti sani e genuini coltivati da noi.
Avevo dei ceci neri cotti in frigo, li ho frullati con un frullatore a immersione, ho aggiunto prezzemolo tritato, aglio tritato, formaggio grattugiato (avevo solo Parmigiano), pane grattugiato, olio e uova.
Ho fatto un impasto di una bella consistenza anche se comunque più morbido delle polpette di carne. Avevo del formaggio bovino primo sale e ho deciso di metterne un pezzetto nel cuore delle polpette. Ho ripassato le polpette nel pane grattugiato e messe in teglia con carta forno. Infornate e fatte cuocere a 200 gradi per mezz’ora.
Le mie polpette per fargli contenere il formaggio primo sale erano grandicelle, forse senza ripieno le avrei fatte più piccole e sicuramente sarebbero state in forno un pochino meno. Giuseppe le ha apprezzate molto, ha mangiato anche la sera quelle avanzate. Io strafelice per aver arricchito la mia cucina di una ricetta vincente nuova.
#amocucinareperchiamo
Psssssss.... sono Giuseppe voglio dire a tutti i bambini che i ceci neri li adoro al punto di volerli mangiare tutti i giorni. Vi lascio, devo fare i compiti e poi dedicarmi ai miei insetti. #amoimacaoni
Mamma è una bella giornata raccogliamo i fiori??? Strano ma vero, mio figlio Giuseppe adora raccogliere i fiori insieme a me. È un gioco che abbiamo fatto sin da quando era piccino, giocando... giocando gli ho insegnato quasi tutti i fiori edibili del nostro territorio. Gli ho insegnato anche che bisogna raccoglierli in posti puliti da inquinamento, lontano dai campi trattati con i fitofarmaci e bisogna essere certi di non avere commensali allergici. È un lavoro certosino ma estremamente piacevole. I fiori danno allegria ed eleganza a svariate insalate ma a noi piace utilizzarli anche cotti. La parte edibile dei fiori in genere sono i petali e ogni fiore ha, come tutto in natura, un sapore particolare.
Siccome parlando abbiamo deciso di fare le tagliatelle fiorite ne raccogliamo di vari tipi e di gusti diversi. In effetti raccogliamo ciò che troviamo visto che ormai siamo agli sgoccioli, ancora qualche giorno e le gelate invernali bruceranno tutto.
Ecco il nostro bottino: fiori di borraggine dal sapore simile al cetriolo e di un bellissimo colore blu- violaceo; pratolina delicata e leggermente dolce; fiore di tarassaco dal colore giallo e sapore leggermente amaro; fiore di cicoria colore celeste chiaro e gusto amarognolo; acetosella colore giallo acido e gusto acidulo proprio come racconta il suo nome; nasturzio dal brillante color arancio sapore dolce e leggermente piccante; calendula colore del sole e gusto piccante e pepato; fiore di rapa, giallo a mazzetti molto delicato ; qualche fogliolina di prezzemolo e una foglia di rucola. Tanta roba ma piccoli i quantitativi, basteranno per le nostre tagliatelle.
Andiamo nel mio laboratorio a fare le tagliatelle, io uso solo uova e farina mischiata a semola. Un uovo a commensale e normalmente un uovo assorbe 100 g di farina. Quindi queste sono le dosi. Noi siamo in tre, nonostante sia domenica non abbiamo ospiti! e chi li ha in questo periodo? Sorridiamo, siamo fiduciosi e ottimisti.
Facciamo le tagliatelle. Faccio una fontana di farina e semola sulla spianatoia di legno e rompo le uova al centro, inizio a far assorbire la farina alle uova e, se necessario, qualche uovo può essere più grande aggiungo altra farina. L’impasto deve risultare bello sodo al punto da faticare un pochino per lavorarlo. Lo lavoro a lungo almeno 5 minuti come mi ha insegnato mia mamma. Normalmente lo faccio riposare un po’ prima di stenderlo ma stamattina è un pochino tardi e quindi inizio a stenderlo direttamente. Per essere veloce uso la macchina per la pasta per stenderla, quella semplice a manovella. La tiro a spessore che mi piace e faccio quattro strisce uguali di lunghezza.
Ora prendo tutti i fiori che ho accuratamente lavato e asciugato e con l’aiuto di Giuseppe cominciamo a fare un bellissimo prato fiorito su due delle quattro strisce di pasta. Finito di disporre i fiori prendo le strisce di pasta senza fiori e ricopro il mio prato fiorito. A questo punto mi trovo due strisce con in mezzo i fiori, le passo nel rullo della macchina per stendere allo stesso spessore di prima e le faccio riposare dieci minuti.
Le taglio e sono pronte per essere cotte. Ho già una pentola capace con abbondante acqua salata che bolle. Metto giù le tagliatelle e quando inizia il bollore con le tagliatelle che vengono tutte a galla, le sgocciolo. Per condirle io ho preparato un sugo al pomodoro molto semplice e leggero. Ho tritato finemente una cipolla e due spicchi di aglio. Metto l’olio in una pentola dal fondo spesso, aggiungo la cipolla e l’aglio tritati e la faccio rosolare bene, facendo attenzione a girarla spesso, per non farla scurire. Unisco poi la passata di pomodoro, regolo di sale, copro e faccio raggiungere il bollore a fuoco moderato. Da quando bolle abbasso la fiamma al minimo e faccio cuocere il sugo per 15-20 minuti.
A fine cottura metto due foglioline di basilico fresco e condisco le tagliatelle, spolverizzo con un pochino di formaggio grattugiato. Si possono condire a proprio piacimento con qualsiasi condimento purché leggero e non troppo saporito per non coprire il profumo e sapore delicato di queste straordinarie tagliatelle fiorite.
Come quasi ogni giorno faccio il mio giretto nel terreno intorno casa. Controllo le nuove piantine, le potature da fare, le cose da raccogliere. Oggi ho un’accompagnatrice d’eccezione, una trovatella che abbiamo adottato, si chiama Sally ed è dolcissima, è già diventata la mia ombra.
Passeggiamo osservando attentamente tutta la scarna vegetazione invernale e ciò nonostante non mancano mai le sorprese tra le erbe spontanee.
Oggi il mio sguardo viene attirato dai capolini di color arancione delle calendule. Il fatto che i fiori si aprono al mattino per richiudersi al tramonto, è sempre stato considerato un simbolo di dolore per la scomparsa del sole, questa credenza ha fatto in modo che la calendula fosse associata ingiustamente, nel corso dei secoli, ai sentimenti di dolore. La calendula emerge dai prati incolti invernali con un acceso giallo/arancione e a me guardarla allieta e riscalda il cuore, specialmente in inverno, specialmente oggi che finalmente vedo il sole dopo tanta pioggia. La leggenda vuole che le lacrime di Venere cadendo sulla terra si tramutarono proprio in calendule alla morte dell’amato Adone. A me invece mettono allegria e quando vado a raccoglierle sono sempre euforica e gioiosa. L’ora migliore per raccogliere i capolini è attorno alle 8, poco dopo l’apertura e prima della dischiusa totale e quando il sole non è ancora alto. Certo che in inverno a quell’ora fa un po’ freddino ma secondo me ne vale sempre la pena.
Quando ho fatto il corso di agricoltura biologica mi hanno insegnato che la calendula è uno dei fiori da avere sempre nell’orto, perché non solo le sue radici scoraggiano l’insediamento di alcuni parassiti dal terreno, ma attirano anche insetti utili come i sirfidi (simili a mosche ma più colorati) le cui larve si nutrono di afidi e, come se non bastasse, la calendula è anche poco gradita alle zanzare, per cui può contribuire a tenerle lontane. Io infatti in estate ho davanti casa dei grandi vasi di calendula officinale, quella che si trova dai fiorai, proprio per tenere lontano le zanzare. Senza sofferenza e pazienza le cose buone non si trovano e siccome dal fruttivendolo i fiori di calendula non sono in vendita, preferisco fare questo piccolo sacrificio mattutino. Quindi scendo con il mio panierino ben incappucciata e mi accingo a raccoglierne sempre un pochino in più del bisogno, male che vada li essicco per aggiungerli alle mie tisane invernali. Raccolgo anche delle foglioline tenere da utilizzare nelle insalate ma faccio sempre attenzione a dosarle bene: le foglie della calendula selvatica hanno un sapore piuttosto forte e amaro. I fiori di calendula selvatica invece hanno un gusto piccante e pepato e io li uso allo stadio di bocciolo oppure scelgo i singoli petali per aggiungerli alle insalate, minestre, sughi, panini, frittate…
Riescono ad arricchire con il loro colore arancio acceso diverse mie portate, oltre che a garantirmi un elemento di decorazione e di lusso a ogni piatto. Ho letto che petali di calendula selvatica sono usati come sostituto del più costoso e pregiato zafferano. Per questo motivo la calendula è spesso definita lo zafferano dei poveri.
Visto che ho ancora spazio nel mio cesto vedo delle verdissime piantine di crespigno, ne raccolgo a sufficienza da farle saltare in padella e farne dei muffin salati. Questa piantina non sempre viene considerata, anche perché ha delle timide spine sulle foglie e a chi non la conosce potrebbe far paura ma le sue spine, ripeto, sono timide, accarezzano la pelle e basta. La prima cosa da fare ora è lavarli bene e sbollentarli in acqua e sale in modo che siano pronti per qualsiasi preparazione.
Muffin salati al crespigno
Per questi muffin salati ho bisogno di pochissimi ingredienti: 200 g di farina semi-integrale, una bustina di lievito istantaneo, mezzo cucchiaino di sale, 100 g di crespigno frullato in un bicchiere di latte, due uova intere, due cucchiaiate di formaggio morbido, tre cucchiai di olio evo. Unisco tutti gli ingredienti amalgamandoli bene, verso nei pirottini di carta o di lattice e inforno a 180° in forno statico per 20 minuti.
Fusilli al pesto di calendula
I miei ingredienti per questo pesto speciale sono:
100 g di capolini freschi di calendula; 8/10 gherigli noci; olio extra vergine di oliva; 2 spicchi di aglio; sale; formaggio grattugiato;
Metto tutti gli ingredienti in un mixer per rendere tutto un fine trito, poi con l’aggiunta graduale dell’olio trasformerò pian piano il tutto in una salsina. Regolo di sale e decido di aggiungere anche tre o quattro foglioline di menta crespa, la menta darà un tocco speciale al pesto: si sposa infatti benissimo con l’aroma floreale della calendula.
Con questo colorato e saporito pesto condirò un piatto di fusilli di grande effetto. Io ho usato i fusilli ma ovviamente niente mi vieta di usare un altro tipo di pasta come penne o trofie.
Frittata arrotolata di fiori di calendula
Fiori di calendula, erba cipollina, uova, formaggio grattugiato un pizzico, formaggio tipo Asiago o Emmental, sale quanto basta: io aggiungo anche una grattatina di buccia di limone, mi piace il profumo in abbinamento alla calendula e all’erba cipollina.
In una padella metto i capolini di calendula e l’erba cipollina con un filo di olio evo e faccio cuocere per due minuti. Sbatto bene le uova con un po’ di formaggio grattugiato, un pizzico di sale e una grattata di buccia di limone.
Verso le uova nella padella con i capolini di calendula e abbasso la fiamma. Aspetto che sia cotto lo strato a contatto con la padella e metto al centro, nel senso della lunghezza, le fettine di formaggio (oggi uso l’Asiago), comincio ad arrotolare la frittata ancora mezza cruda. Arrotolando in continuazione e a fuoco lento, in modo che l’uovo all’interno si cuocia bene e il formaggio abbia il tempo di sciogliersi.
Ecco, è cotta e dorata, pronta per essere mangiata. Io la preferisco calda.
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