Il sole dell’estate avvolge le piante da ogni direzione fin dal primo mattino. Così i chicchi s’ingrossano nei grappoli ancora verdi, ma che già si distinguono tra il fitto fogliame.

I lunghi filari accompagnano il cammino in una sequenza che si dipana di collina in collina. Interrotta solo dal verde argenteo di solidi ulivi, altra presenza costante nella campagna sannita. Superata l’altura rossa di tetti di Torrecuso, dominata dal profilo del palazzo Caracciolo-Cito, i vigneti guidano lungo una salita che porta all’ingresso di un edificio dove l’uva è protagonista in ogni angolo, dettaglio, elemento decorativo. Accogliente con i suoi colori caldi e le modanature di chiara pietra locale, la Cantina Iannella già all’ingresso, con le stampe antiche del paese e dei terreni, chiarisce la sua origine nel Novecento che da quest’anno si può definire antica. Giusto un secolo fa, Giovanni, il fondatore, dava inizio all’impresa portata poi avanti, con altrettanta convinzione, prima da Nicola e ora da Antonio, terza generazione di una famiglia votata a custodire e mettere a frutto la vocazione di questa terra, fertile incubatrice di nobili vini.

DC SANNIO DSC 2813

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Allo sguardo profano che osserva la distesa di viti tutt’intorno, sfuggono le differenze che la cantina subito evidenzia, fin dall’esposizione delle bottiglie, tra i bianchi e i rossi pilastri della viticoltura del Sannio: Aglianico, Falanghina, Piedirosso, Greco, Fiano. Ciascuno con il suo carattere, la sua storia, i suoi abbinamenti. E il suo legame con questo luogo in particolare, che sintetizza tra le sue mura cento anni di lavoro, ricerca, tradizione e innovazione. Antonio sta dando valore alla storia familiare che lo ha preceduto negli ambienti di quella che è molto più di una cantina. Casa, per lui e la sua famiglia, e luogo di accoglienza, museo, spazio di conoscenza e di incontro per gli ospiti e i visitatori che la frequentano. 

Dovunque ci sono oggetti che richiamano l’origine, le pratiche e le tradizioni della viticoltura all’ombra del Taburno. Nell’ampio salone sono esposti pezzi d’epoca, torchi antichi, fotografie che collegano la memoria familiare a quella di un’intera comunità, legata alla terra e alla vita di Torrecuso. Un’identità rivendicata anche nella presenza della torre nel marchio dell’azienda.

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Un passato forte, rispettato, che tuttavia non annulla il presente. Il comodo ascensore che conduce nel profondo della cantina lo testimonia. Appena si apre, il profumo intenso del vino rivela la bottaia, la parte essenziale, la più preziosa. Lì dove è custodito al fresco e al buio il risultato del lavoro di anni e dell’esperienza centenaria. Curatissimo ogni millimetro, studiata ogni pietra, tutto ciò che è a contatto con il vino, a parte le bottiglie allineate sul fondo dell’enorme spazio, è rigorosamente di legno. In linea con le scelte di qualità che governano ogni passaggio del delicato processo di mutazione del mosto in vino doc.

Di legno, gigantesca, è anche la grande porta che si apre direttamente sui vigneti, disposti intorno all’edificio per diversi ettari. Siamo nel cuore del Taburno, sull’orecchio destro della Dormiente. I suoi monti s’innalzano protettivi alle spalle, davanti c’è un alternarsi di valli e colline a perdita d’occhio, dove si distinguono i campi gialli del fieno appena colto dagli uliveti  e, soprattutto, dai vigneti, che prevalgono su ogni altra coltura. Viti basse, allevate a spalliera, una innovazione dei tempi recenti, di cui Antonio Iannella parla con l’orgoglio di chi ha fatto una scelta precisa e convinta di cambiamento rispetto al sapere e alla pratica della tradizione.

Prima i filari erano disposti a raggiera e si compenetravano con gli alberi d’ulivo e da frutta, perché ogni terreno doveva assicurare il necessario per vivere a chi lo coltivava. Ora ogni appezzamento ha la sua coltivazione e le viti a spalliera prendono luce da ogni parte, armoniosamente, per tutta la giornata, dall’alba al tramonto, quando il sole scompare dietro le montagne tra bagliori purpurei.

La nuova disposizione dei filari, a cui si stanno riconvertendo uno ad uno tutti gli impianti, è la semplice, decisiva innovazione per chi ha deciso di produrre vino di alta qualità e biologico. Nel rispetto assoluto della terra, che sciorina sotto i filari l’incredibile varietà delle sue erbe selvatiche, fiorite e profumate, regno di insetti impollinatori e di organismi che contribuiscono alla salute e alla crescita dei vigneti. Lo ripete convinto, Antonio: «Si possono avere tutti gli esperti del mondo, ma è la vite che fa il vino». E loro, le viti, sono in piena attività per la produzione del centenario.