È entrata prepotentemente nell’uso quotidiano, non di rado in associazione a messaggi promozionali, a garanzia della natura “green” di produzioni, tecnologie e comportamenti. Una parola importante, sostenibilità, per la complessità del concetto e dei significati che racchiude, eppure spesso utilizzata in modo improprio, semplicistico, perfino fuorviante.
Recuperarne il senso è stato l’obiettivo dell’intervento del professor Giancarlo Carrada nel quarto incontro on line di Isole Verdi, il corso di formazione promosso dall’Area Marina Protetta Regno di Nettuno. Così come era già accaduto negli appuntamenti precedenti per Ecologia e Biodiversità. E per approcciare compiutamente il tema della sostenibilità, il relatore si è soffermato sul “Chi mangia chi”, ovvero sui passaggi del prelievo alimentare attraverso i quali si formano le catene e le reti trofiche. Azioni che derivano dall’incontro tra la cosiddetta nicchia naturale, che attiene al mondo naturale, e quella culturale, relativa al mondo antropico.
Tutte le forme di vita hanno bisogno di procurarsi energia per crescere, vivere, riprodursi e assicurare la sopravvivenza della specie. E l’energia per sostenere tutto deriva sempre e soltanto dal sole, elemento primario delle catene trofiche o alimentari, delle quali ogni anello rappresenta una specie che si nutre dell’altra e quando una specie è mangiata da più specie si costituiscono delle reti trofiche.
Catene alimentari e sostenibilità
L’Ecologia trofica studia i rapporti alimentari tra le specie e all’interno delle comunità. I rapporti trofici o alimentari sono il meccanismo attraverso il quale l’energia solare attraversa gli organismi e viene distribuita nell’ecosistema. Quando l’uomo, che è l’unico essere in grado di ridurre se non di annullare le distanze e i tempi dei processi, si inserisce nel prelievo delle risorse naturali, si pone il problema della sostenibilità. Se preleviamo più di quello che una popolazione con la riproduzione è in grado di ricostituire, intacchiamo il capitale naturale e agiamo in modo non sostenibile.
L’energia solare di partenza, man mano che si procede nella catena dai vegetali, agli animali erbivori, ai carnivori decade rapidamente perché ne aumenta il consumo per il movimento, la riproduzione ecc. per cui solo una minima parte dell’energia iniziale si trasforma in biomassa, il cui valore dipende, entrando in campo l’uomo, anche dal gusto, dal costume e dalle abitudini alimentari, dunque da elementi culturali.
Carrada ha illustrato vari tipi di catene alimentari, distinguendole in base alla loro minore o maggiore stabilità. Direttamente correlata al numero e alla complessità delle interconnessioni tra le specie: se una sola specie vegetale sostiene l’alimentazione di più specie di erbivori o una sola specie di erbivori fornisce nutrimento (e dunque energia) a più specie di carnivori, quando l’unica specie da cui dipendono altre, per i più vari motivi, viene meno o non è più sufficiente a soddisfare le necessità di nutrire gli altri anelli della catena, l’intero sistema salta. Di contro, più diversificate sono le specie che danno nutrimento ad altre specie, dunque più numerose sono le reti e le specie di eurifagi (cioè che mangiano tutto) che le formano, più un sistema è stabile, perché se viene meno una fonte di nutrienti e di energia, altre la sostituiscono.
L’esempio dell’Antartide
È evidente che lo studio approfondito nel tempo per sapere chi mangia chi è il presupposto necessario per comprendere e gestire la sostenibilità. Come esempio, Carrada, ha illustrato l’ecosistema antartico, il più instabile di tutti. Il fitoplancton nutre l’unica specie erbivora, il krill (masse di gamberetti di pochi centimetri) che è l’unico cibo per i pesci, le balene, le foche, i pinguini. Finora, il krill è rimasto disponibile in quantità sufficienti per alimentare tutte queste specie carnivore, tanto più a seguito della diminuzione del numero delle balene. Ma da qualche tempo in Giappone è stato scoperto che il carapace dei gamberetti antartici contiene una sostanza usata nella chirurgia estetica, perché cancella le cicatrici, e questo sta portando ad un consumo elevato. Se il krill non fosse gestito in modo sostenibile, tutto l’ecosistema che da esso dipende, sarebbe a rischio. Peraltro, a proposito di prelievo sostenibile, tutte le specie ittiche sono oggetto di un eccessivo sforzo di pesca, nonostante il sistema delle quote.
Le piramidi di biomasse
Nell’ecosistema marino il primo anello è il fitoplancton, poi lo zooplancton che se ne nutre e che ha una biomassa (ovvero il peso di un organismo) maggiore e, al vertice della piramide, ci sono i pesci, che rappresentano la percentuale di biomassa più bassa, eppure solo quella piccola parte entra nell’alimentazione dell’uomo, di qui l’eccesso di pesca. Nell’ecosistema terrestre, invece, la biomassa maggiore è dei vegetali alla base della piramide, seguono gli erbivori e al vertice, con le quantità minori, i carnivori. Quindi per l’uomo la maggiore disponibilità è di vegetali e di questo si deve tener conto nella valutazione della sostenibilità. È la natura che deve riuscire a sostenere il consumo umano, mentre l’uomo deve agire in modo che il prelievo delle risorse sia sopportabile per il sistema di cui è parte
La risorsa escrementi e il guano del Perù
Nel fornire un quadro complessivo delle catene e reti trofiche, Carrada non ha trascurato il ruolo dei detriti e dei batteri sia a terra che a mare. Anche gli escrementi entrano nel sistema e rappresentano una risorsa preziosa per la natura e, rispetto alla realtà umana, per l’agricoltura. Per illustrare questo tema in gran parte ignorato, il relatore ha fatto riferimento al guano, l’oro bianco del Perù, che già gli Incas utilizzavano largamente come concime e tutelavano come risorsa fondamentale per l’agricoltura. Enormi accumuli di deiezioni di uccelli marini si trovavano e si trovano sulle isole davanti alle coste peruviane. Gli uccelli si nutrono esclusivamente di una grande acciuga, la anchoveta peruviana (Engraulis ringens), che è anche il pesce più pescato al mondo, perché alimenta il 60 per cento del mercato mondiale di mangimi per l’acquacoltura e per gli allevamenti animali terrestri.
Dopo la scoperta in Europa di questa risorsa, nell’800 iniziò un commercio su scala mondiale con l’estrazione di grandi quantitativi di guano sfruttando il lavoro dei coolies cinesi. Il guano peruviano assicurava azoto e fosforo alle coltivazioni in ogni parte del mondo. Un esempio di come l’uomo si sia inserito in modo massiccio in un ecosistema che oggi vede una riduzione drastica della anchoveta, da cui derivano i minerali per l’agricoltura e il mangime per i nostri allevamenti. A dimostrazione di quanto complessa e delicata sia la questione della sostenibilità, che necessita perciò di un approccio consapevole, attento e, al tempo stesso, critico.
Pesca vietata, specie minacciate, rifiuti e plastica: quante azioni contro l’ecosistema marino!
Stavolta le fotografie subacquee (comunque belle) del ricercatore Guido Villani sono servite a mettere a fuoco i tanti comportamenti umani che interferiscono negativamente con l’ecosistema marino. Un elenco lungo e vario, purtroppo, che crea danni su scala globale, senza fare eccezione nel nostro mare, compresi alcuni casi perfino all’interno dell’area protetta.
Villani ha descritto le modalità della pesca a strascico, che ara i fondali tirando su uova, larve, pesci sottotaglia, ributtati a mare e dunque distrutti. Un metodo di pesca vietato entro i cinquanta metri, a preservare i posidonieti, anche se non mancano le violazioni. L’uso di dissuasori sott’acqua crea, a sua volta, il problema dei pezzi di rete dispersi, che sono un pericolo per cetacei e tartarughe e sono un danno per le specie che vivono sul substrato.
Le nasse di plastica sono collegate a centinaia da cime che danneggiano gravemente le popolazioni che vivono sul coralligeno.
Per non parlare dei disastri provocati dalla pesca proibita dei datteri di mare, perché colpisce una specie protetta; perché rompe le rocce colonizzate dall’animale; perché i detriti soffocano le specie sul fondale. Altra devastazione riguarda il prelievo di tunicati filtratori, strappati dalle rocce perfino nella zona A dell’Amp. E poi gli enormi accumuli di reti di plastica sui fondali sotto gli impianti di mitilicoltura nel golfo di Pozzuoli e le “trappole di plastica” per catturare i maruzzielli.
Villani ha proposto immagini più che eloquenti, poi, dei rifiuti di ogni genere, con forte prevalenza della plastica, che si raccolgono sui fondali marini. Una proliferazione che chiama in causa la responsabilità di tutti.
AREA MARINA PROTETTA DELLE ISOLE FLEGREE REGNO DI NETTUNO
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