Un colpo d’occhio che racchiude sette secoli. Seduti comodamente ad un bel tavolo di ceramica di Vietri
con festoni di frutta e fiori, dalla vetrata si propone uno dei panorami più ammalianti e caratteristici di Napoli.
A sinistra, severo e maestoso, c’è il Maschio Angioino, simbolo della città; a destra, dall’inconfondibile colore rosso pompeiano, si staglia una parte dell’enorme complesso del Palazzo reale e in primo piano il giardino della Biblioteca nazionale, che occupa quello che un tempo era il salone delle feste della reggia borbonica. Sullo sfondo, compaiono il porto, il mare e il Vesuvio, che non poteva essere escluso da un luogo così fortemente legato all’identità partenopea, celebrata qui di continuo nelle sua variegata e multiforme essenza intorno a un forno a legna e a una cucina. Perché “San Carlo 17” è una pizzeria-ristorante, ma è anche parte del complesso che racchiude la Galleria Umberto e il Teatro San Carlo, a cui è intitolata la via con l’indirizzo scelto come nome, senza pregiudizio e con un po’ di scaramanzia. «Siamo in un monumento di fronte al mondo», sottolinea con un sorriso Luigi Marra, il padrone di casa pizzaiolo e chef, ben consapevole dell’effetto che fa la magnifica cartolina dal vero offerta ai suoi ospiti.
Una taverna rustica nel cuore nobile di Napoli
Un posto speciale, cercato con cura e fortemente voluto. Lo si capisce da come Marra lo ha allestito all’interno. Sui due piani, nulla è lasciato al caso nella scelta degli oggetti antichi di rame appesi al muro insieme alle sporte di nocciolo fatte a mano da suo padre e alle immagini in bianco e nero dei film con i protagonisti dello spettacolo partenopeo del Novecento. «Ho pensato a una taverna rurale nel cuore nobile di Napoli – spiega – La classica taverna sotto i palazzi storici, dove ci si riuniva in un’atmosfera familiare, per mangiare quello che non si cucina a casa e stare insieme in allegria. L’ho arredato come un giardino, con i tavoli di Vietri, tutti diversi e molto colorati, come le maioliche del pavimento. Perché Napoli, per me, è accoglienza e colori, una città dalle porte aperte, fatta di ospitalità. Dove a tavola, tante volte, si è fatta anche la storia».
Ha ragione: la storia del cibo è parte integrante di quella di una comunità. E Marra, cultore di tutto ciò che riguarda la sua città, non trascura di valorizzare gli elementi culturali della gastronomia partenopea innanzitutto in cucina e poi nel raccontarli a quanti frequentano il suo ristorante. Spesso per seguire le lezioni di pizza e di cucina napoletana, che sono diventate una parte importante del suo lavoro. E anche molto appagante, considerato che si rivolgono perlopiù a stranieri, delle più diverse provenienze e culture, con i quali lo chef ha la possibilità di essere testimone e ambasciatore dell’“arte del palato” a Napoli. «Per i corsi di pizza – spiega – arrivano da ogni parte d’Europa. Ma il più bello che abbiamo fatto è stato con cinesi e giapponesi. Ė una food experience per mostrare l’impasto napoletano tradizionale e fare poi la pizza. E se ne parla, ovviamente. Poi, la mangiamo insieme, con gli antipasti fatti per gustare l’impasto nostro. Tengo anche corsi di pizza fritta e di pizza senza glutine. E dimostrazioni dei piatti della nostra tradizione, di pesce, con gli gnocchi alla sorrentina, la “genovese”…». E aggiunge: «Dopo mando loro la foto con la ricetta via mail, così si possono godere il momento e ricordarlo».
La cucina dei monzù e le pizze fritte
Lui padroneggia diverse lingue, che ha voluto imparare proprio per interloquire direttamente, senza intermediari, con chi sceglie la sua cucina. Ė anche quello uno dei suoi modi per essere accogliente: «Questo è il luogo per far conoscere Napoli dal cibo. E in questo locale tutti devono sentirsi come a casa. Per questo cerco di raccontare i nostri piatti e i nostri prodotti, legandoli a chi ascolta. Se a un americano racconti che il nostro San Marzano Dop ha origine nel suo continente, fa molto effetto». E poi c’è la storia della nouvelle cuisine napoletana, la cucina dei monzù, e la storia della pizza: Salvatore Esposito con la sua Margherita e l’antica Mastu Nicola, che «è l’ideale per far assaporare l’impasto come la Marinara, la pizza dei marittimi, che io preferisco. Con la Margherita, invece, il latticino copre il gusto dell’impasto».
Una sua specialità è la pizza fritta. Marra l’ha portata pure alla fiera mondiale di Rimini nel 2020: «Avevo immaginato di farne una quindicina come test, ne ho dovute preparare circa trecento in tre varianti. Di solito si pensa che sia una preparazione antica, invece risale al periodo dell’ultima guerra mondiale. Dopo i bombardamenti, i forni vennero chiusi e per mangiare qualcosa i napoletani friggevano un impasto basso di pizza e ci mettevano sopra il pomodoro. Semplice così, senza le imbottiture, che sono un’altra cosa. Io ci grattugio la caciotta stagionata, perché nella nostra tradizione si usava il formaggio di pecora, non certo il parmigiano». Unica novità ammessa è la pizza senza glutine, sempre più richiesta, della quale ha studiato con cura l’impasto e le caratteristiche, fino a farne una proposta di punta del suo locale.
Tante esperienze, dopo la cucina di mamma
Appassionato d’arte, ballerino di danza classica da ragazzo, Marra ha calcato anche le tavole del palcoscenico e spera di tornare presto a recitare in teatro. Nel frattempo, accoglie con piacere nel suo ristorante étoile della danza e attori nel dopo teatro. «Oltre al San Carlo, qui siamo vicini anche al San Ferdinando e all’Augusteo», sottolinea con orgoglio e con la soddisfazione di chi riesce a mettere insieme passioni e interessi diversi. Poliedrico è di certo un aggettivo che lo rappresenta. Sintesi di tante esperienze di lavoro e di vita, iniziate da quando, a tredici anni, andò a lavorare per la prima volta in un ristorante: «Ho cominciato da zero, facendo tutta la trafila. Ho lavorato molto anche in sala, oltre che in cucina. Chi mi ha spiegato il mestiere, mi ha subito responsabilizzato, spingendomi a imparare da solo. E mi sono innamorato di questo lavoro».
Anche se si occupa di ogni aspetto della gestione, la cucina resta la passione più grande. Nata tra i profumi e i sapori dei piatti di mamma, «che, ultimo di quattro figli maschi, dovevo aiutare nella cura della casa. E a fare tortani e casatielli a Pasqua come le melanzane sott’olio d’estate. Poi ho girato tanto, studiato, ma alcuni piatti, come li prepara mamma, sono ancora inarrivabili». Compresa la “genovese”. Che però è anche una delle sue specialità. Con la cipolla ramata di Montoro e tante accortezze per la lunga cottura. Sempre pronta ad arrivare sulla tavola dei forestieri. «Perché non si può venire a Napoli e non assaggiare la “genovese”».
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