Sono tornati alla luce dei blocchi di calcare locale che appartenevano all’antica Porta Aurea, l’unica distrutta delle quattro grandi porte di accesso all’antica Poseidonia, la nuova città dedicata a Posidone, che i Greci di Sibari fondarono nella piana del Sele nel 600 a.C.
«Finalmente, incerti se camminavamo su rocce o su macerie, potemmo riconoscere alcuni massi oblunghi e squadrati, che avevamo già notato da distante, come templi sopravvissuti e memorie di una città una volta magnifica».
Goethe
A guidarli nella scelta del luogo, era stata la sua posizione geografica favorevole rispetto alle vie commerciali con l’Oriente, oltre alla fertilità della pianura e alla presenza del fiume.
La nuova polis aveva avuto un rapido sviluppo, ma il periodo migliore arrivò nel VI secolo, in corrispondenza con la fuga dei ricchi sibariti dalla loro città espugnata da Crotone nel 510 a.C. Furono loro a investire in una grande espansione urbanistica, comprendente anche la costruzione, nell’arco di un secolo, dei grandi templi al centro della città, che tutt’intorno si allargò su un’area di dodici ettari. Per difenderne il perimetro trapezoidale fu costruita una imponente cinta muraria, che rappresenta oggi una delle opere meglio conservate della Magna Grecia. Lungo le mura sorgevano ventotto torri di blocchi di pietra, di cui restano evidenti rovine, e, oltre a varie porte secondarie più piccole, quattro grandi porte d’accesso ai punti cardinali: Porta Giustizia, Porta Marina, Porta Sirena e Porta Aurea, l’unica distrutta dalla strada per le Calabrie.
Tra i templi si apriva il cosiddetto “mercato”, la piazza dell’agorà dov’era anche il sepolcro vuoto del mitico fondatore di Poseidonia. Intorno ai tempi e al mercato si estendevano le zone delle abitazioni e delle botteghe. Quelle oggi visibili risalgono al periodo imperiale, tra il I e il V secolo d.C., mentre c’è ancora molto da scoprire sull’insediamento greco.
La bella e ricca città magno-greca attirò ben presto l’interesse dei vicini Lucani che, probabilmente in modo progressivo e non bellicoso, nel 400 a,C, finirono con l’impadronirsi di Poseidonia, che ribattezzarono Paistom. Oltre a passare dal greco all’osco, molti altri furono i cambiamenti: nella cultura materiale, nei riti funebri, nel modo di vivere. Ma fu confermata la sacralità dei templi e la città continuò a prosperare dal punto di vista economico e a coltivare le sue tradizioni artistiche.
Nel 273 a.C. i Lucani dovettero cedere al dominio romano, e Paistom divenne Paestum e conobbe un’ulteriore grande trasformazione. Gli abitanti si dimostrarono alleati fedelissimi di Roma a cui dovevano fornire armi e marinai in caso di necessità, come fecero in modo decisivo nelle guerre puniche, tanto da ottenere il diritto di battere moneta. Furono edificati il nuovo foro al posto dell’agorà, molti edifici pubblici, il tempio della Pace e il Tempio della Fortuna Virile. Ma con l’apertura della via Appia e della via Popilia Paestum fu tagliata fuori dai collegamenti con l’Oriente, primo colpo alla sua ricchezza e potenza. Poi iniziò il fenomeno dell’impaludamento dalle zone più vicine al mare sempre più verso l’interno, a causa del fiume Salso detto anche Capodifiume, che ancora scorre a ridosso delle mura meridionali dov’è Porta Giustizia e pure ponticello del IV secolo a.C. La popolazione fu costretta a ritirarsi nelle parti più elevate, come intorno al Tempio di Cerere. Il colpo di grazia lo diedero l’epidemia di malaria del IX secolo d.C. e le scorrerie dei Saraceni, che spinsero i pestani sui monti, abbandonando Posidonia per sempre.
I grandi templi solitari nella campagna attiravano di tanto in tanto l’attenzione di poeti e letterati e a loro furono dedicate varie citazioni in opere del Cinquecento e Seicento. A riscoprirli fu la strada 18 fatta costruire da Carlo III di Borbone che passava in mezzo ai templi e così Paestum nel Settecento divenne tappa imperdibile del Grand Tour, visitata da Goethe, Shelley, Canova e Piranesi. Che ne ritrasse le rovine in splendide tavole.
Gli scavi archeologici iniziarono nel1907. Tra anni gli anni ‘60 e ’70 le campagne di scavo si concentrarono sullanecropoli. Tornò così alla luce la splendida Tomba del Tuffatore (480-470 a.C.), unico esempio di pittura greca non vascolare, e le tombe affrescate dai raffinati corredi dei ricchi lucani. Con il ritrovamento di pezzi preziosissimi di grandi maestri ceramisti e ceramografi come Assteas, Python e il cosiddetto Pittore di Afrodite. Il 27 novembre 1952 fu aperto il Museo Archeologico Nazionale di Paestum, che illustra le fasi fondamentali della vita della città preistorica, greca, lucana e romana.
La visita alla città di Paestum segue un percorso che inizia dai famosi tre templi, capolavori dell’arte greca, di cui, insieme agli omologhi di Atene e di Agrigento, sono gli esempi meglio conservati giunti fino a noi. Il tempio di Hera, la cosiddetta Basilica perché erroneamente catalogato come edificio romano, è il più antico dei tre, innanzato nel 560 a.C. In stile dorico, periptero è lungo cinquantacinque metri e largo ventisei. Cinquant’anni dopo fu costruito il più piccolo tempio di Cerere del 510, dedicato in realtà ad Atena, ha la particolarità del frontone alto e del fregio composto da blocchi di calcare e inoltre presenta colonne doriche nel peristilio e ioniche nella cella. Con il cristianesimo fu trasformato in chiesa dell’Annunziata e sul fondo, all’interno, vi sono tre tombe cristiane. Il gigante dei tre edifici sacri, che Winckelmann indicò come la testimonianza viva di come l’arte greca sia da considerare all’origine dell’arte occidentale, è il tempio di Posidone del 460 a.C. Probabilmente dedicato a Hera, Zeus o Apollo, tutto in travertino, dalla delicata colorazione dorata che cambia riflessi a seconda dell’ora del giorno e della stagione, è stato paragonato per maestosità al tempio di Zeus ad Olimpia, un tripudio dello stile dorico con la particolarità di avere nove colonne sul fronte, mentre nei templi di epoca successiva saranno sempre in numero pari. L’itinerario prosegue lungo la Via Sacra, interamente lastricata sul preesistente tracciato greco, e raggiunge il Foro romano con edifici pubblici, botteghe, una stoà, un edificio ottagonale che forse un macellum, la curia e resti delle terme. E oltre, il Tempio italico, il Capitolium romano e una parte dell’anfiteatro, solo in parte visibile, la struttura greca che ospitava l’erario con il tesoro della città e il Santuario della Fortuna Virile con una grande piscina, dove per le feste in onore di Venere si svolgevano i riti della fertilità.
La Necropoli della Cultura del Gaudo
Erano sbarcati da poco a Salerno, gli Alleati anglo-americani, quando nell’autunno del 1943 diedero inizio alla costruzione di una pista d’atterraggio nella piana del Sele, non lontano dalla foce dei fiume, a poco più di un chilometro da Paestum, già nota per i suoi templi.
Durante lo scavo per la nuova infrastruttura, emersero resti di un’antica necropoli, in parte distrutta, che fu subito oggetto di indagini archeologiche da parte della Soprintendenza, nonostante si fosse ancora in tempo di guerra. Si evidenziò la presenza di 34 tombe scavate nella roccia e distribuite su una superficie di circa 2000 metri quadri. Risalenti all’Età Eneolitica, i reperti riportati alla luce nei corredi funerari, in particolare vasi di ceramica d’impasto e armi prevalentemente di selce e in pochi casi di rame, suggerivano l’appartenenza ad una popolazione originaria dell’Egeo e dell’Anatolia in un periodo tra il 2400 e il 1900 a.C. Dal nome del luogo della necropoli, Spina Gaudo, fu identificata come “cultura del Gaudo”: forse un gruppo nomade di una stirpe guerriera, organizzato in clan e migrato dall’Anatolia.
Oltre a Paestum, tracce di questa civiltà sono state trovate anche a Mirabella Eclano, Caiazzo, Napoli e Sorrento. Secondo Giorgio Buchner, lo scopritore di Pithekoussai, sarebbe stata diffusa in un’area più vasta, in un’epoca precedente alla Civiltà Appenninica dell’Età del Bronzo.
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