Due piste con delle strane impronte. 58 per l’esattezza. Alcune a zig zag altre diritte. Di dimensioni e caratteristiche umane, ma non proprio. E su un blocco di tufo ai piedi del versante nordoccidentale del vulcano spento di Roccamonfina.
Chi mai aveva potuto camminare indenne sulla lava incandescente? L’unica risposta plausibile per gli abitanti di Foresta, che quel percorso seguivano per andare a macinare il grano al mulino, fu che doveva essere stato il diavolo. E così cominciarono a chiamare quel luogo le Ciampate del Diavolo.
Le impronte non erano state sempre visibili. Erano comparse nell’Ottocento, dopo un periodo di piogge torrenziali che si erano abbattute nel circondario di Tora e Piccilli, i due paesi più grandi di cui Foresta era una frazione. Il dilavamento del terreno aveva riportato alla luce quel blocco di tufo e i segni che vi erano impressi. Per quasi due secoli interpretati come un fenomeno inesplicabile, decisamente “diabolico”. Fin quando non è entrata in campo la scienza, che ha fornito una spiegazione a quella che si è rivelata una scoperta di valore mondiale. Perché le impronte appartenevano ai primi abitanti della zona. E risalivano al medio Pleistocene, 350mila anni fa. Quando il vulcano di Roccamonfina era in piena attività, con eruzioni pliniane e subpliniane. E da una di quelle era uscito il materiale su cui, quando era già freddo ma non ancora indurito, avevano camminato gli ominidi delle “ciampate”. Tre, dai piedi corrispondenti ad un numero 34 di oggi e alti intorno al metro e sessanta. Misure desunte anche da altre impronte, nitide, che raccontano una storia quotidiana agli albori della presenza umana in Italia.
Non ci sono tracce bipedi in Italia precedenti a quelle di Tora e Picilli. Tra le più antiche al mondo. Con la particolarità che le altre sono state ritrovate in siti pianeggianti, mentre quello campano è un pendio anche molto ripido. E infatti, pur procedendo con estrema cautela, come i passi a zig zag suggeriscono, uno dei tre scivolò, lasciando impressi i segni del fianco, delle caviglie e dei polpacci e poi, per rialzarsi, quello della mano sinistra, prima di riprendere il cammino. Andavano in gruppo in una zona popolata da animali, che hanno lasciato anch’essi delle tracce. Erano ominidi, della specie Homo heidelbergensis, un’evoluzione europea dell’Homo ergaster africano, dunque precedenti all’Homo sapiens, i primi del genere Homo in grado di emettere suoni equiparabili ad un primordiale linguaggio.
La scoperta, pubblicata nel 2003, ha rivelato l’esistenza di un sentiero fossile, il più antico noto, usato dai sapiens moderni fin quando non è stato riconosciuto come sito paleontologico e aperto al pubblico per le visite.
Ph: Stefano Tosi
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