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«Bubbessa». Vi dice niente? È una parola femminile. Ma è nata come un soprannome maschile, trasformato poi in un ampio appellativo familiare che ha il sapore e il potere del mare.

1 FOTO UNO2C’è tutto questo, in un termine curioso che s’infila di prepotenza nel gomitolo delle storie mediterranee; e che non si trova altrove nel mondo, se non a Ischia Ponte.

«Bubbessa» è un perfetto nomignolo glocal, figlio di una storpiatura, di una contrazione dialettale classica da derivazione straniera (l’anagrafe, la geografia e la toponomastica ne sono figlie ovunque); e fu attribuito – per discendenza, a partire dal padre di suo padre e così via – a Francesco Buono, icona del ristorante «Da Ciccio» che è un posto ruspante in attività ininterrottamente dal 1963, a pochi passi dal Piazzale Aragonese.

Nato il 23 giugno del 1932, Francesco «Ciccio» è stato un vero marin-pêcheur dell’attesa, abilissimo e paziente con le reti; e poi con le lenze, tese a sfidare qualche orata passeggera con l’innesco vivo o lanciate a calamari per consuetudine dal Pontile che è il braccio amichevole del borgo vecchio, teso verso la terraferma: è un attracco, un invito a sbarcare, uno spazio immaginario dove concludere una passeggiata, un territorio marcato da ami e fili di nylon trasparente. Il rito silenzioso e preferito da Ciccio coincideva con la scansione del tempo interiore: approfittava di ogni pausa possibile per allamare, e di ogni illuminazione e condizione meteo favorevole, per sistemarsi lì in controluce al Castello, l’isola minore e decisiva nonché complice per la creazione di correnti propizie alle catture minime o fantasmagoriche.

Ci vuole intelligenza, spirito sornione, ironico e mai rassegnato per prendere cefalopodi anche quando l’acqua non è proprio fredda-fredda

Sono le stesse abilità che Ciccio riservava agli umani preferiti: i turisti, gli avventori, gli ospiti della trattoria. Clienti, certo, acchiappati dall’amo o dalla purparella con un sorriso; e che però presto si sono trasformati in frequentatori, habitué allo stesso tavolo da prenotare stagione dopo stagione; a volte amici. Nelle pagine e nelle gallerie d’accoglienza all’ischitana c’è anche lui. È scomparso due giorni prima di compiere l’86.mo compleanno, tre anni fa, nel 2018.

Siamo in clima da anniversario.

1 FOTO UNO2Ciccio Buono con la zuppa di pesce

 

CICCIO

Lo chiamavano Ciccio ‘e Bubbessa, e chi lo ha incontrato non potrà dimenticarne l’aria levantina da strenuo fumatore a favore di vento. E per la vicenda che lo lega alla Bouillabaisse, termine con cui in Provenza si definisce – eccoci al dunque! - la zuppa di pesce.

Tutto cominciò quando, dopo una lunga assenza, il nonno di Ciccio tornò sull’isola dal Sud della Francia dove era andato in cerca di fortune piscatorie, scelta che gli ha dato ragione alla grande nel prosieguo generazionale, fino all’acquisto di barche super tecnologiche. Un giorno si avvicinò a un gozzo ormeggiato all’ultima bitta del Pontile e chiese all’amico, sbirciando a bordo tra le cassette non ancora svuotate di pescetti variopinti, molluschi e qualche preda più nobile, ma rovinata dalle maglie contorte: «Uee, che dici, mi vuoi dare tutto quello che non sei riuscito a vendere? Te lo pago bene».

Celebrava senza saperlo un costume vecchio di 26 secoli, risalente ai Greci, ma consolidato nella sua nuova patria lontana, in una pratica quotidiana tra le onde di risacca che sono sempre diverse eppure si somigliano per il rispetto che incutono. Insomma il pescato rimasto invenduto gli serviva per «preparare una Bouillabaisse». Il nonno lo ammise subito, per sgomberare il campo dalla legittima curiosità per la richiesta non proprio ortodossa.

«Che devi fare?».

«La Bouillabaisse, te lo ripeto».

Botta e risposta, e un interrogativo ulteriore: «… la Bu… bb…essa che, replicò il ragazzo che non immaginava di fondare  una tradizione. Addirittura balbettando.

La straniante parola in francese – va pronunciata booyuhbes – divenne in questo modo, dopo la metamorfosi nel linguaggio popolare, molto più d’una zuppa di pesce povero: è stato ed è un certificato d’identità, per la serie «l’uomo è ciò che mangia e ciò che cucina», attualizzando l’arcinoto aforisma di Ludwig Fuerbach (che giocava all’ala sinistra nella squadra di Hegel e aveva un bel dribbling…).

1 FOTO UNO2Il ristorante da Ciccio

Provate a chiederlo a chi prosegue l’attività in quel luogo – dehor con pedana sulla strada, stanza vintage all’interno - scolpito nella memoria (e al numero 32 di via Luigi Mazzella, tel. 081.991686); chiedete ai figli di Ciccio che sono i pronipoti dell’altro Ciccio: c’è Guido che governa, piratesco, mestoli e fuochi patriottici; e Carlo che, da navigatissimo poliglotta, traccia la rotta in sala. Entrambi, con i parenti francesi conservano un bel legame.

Questa storiella ormai la conoscono in molti, ma non nei dettagli. Sono stato il primo a raccontarla oltre i confini del micromondo ischitano. E ci riprovo.

 

UNA RICETTA PROVERBIALE

Cominciamo da cosa diceva Ciccio e da una ricetta che pubblicai su «Il Mattino» undici anni fa alla vigilia di un’estate caldoumida (c’era troppo spesso la bafagna, come ora) e di un evento particolare.

«I pescatori ischitani – spiegava Ciccio - che calavano le reti a tramaglio, pescavano pesci di tutti i tipi, quelli pregiati come il dentice, la pezzogna, il sarago, la mormora, il San Pietro e altri di qualità inferiore ma non meno saporiti, come lo scorfano, il grongo, la lucerna. L’invenduto lo cucinavano a bordo per il rancio quotidiano. In una padella, la sartana, si rosolavano nella sugna, con aglio e prezzemolo, la lucerna, che ha la carne compatta e soda, il grongo quello nero di fondale e poi, man mano i pesci più delicati come il coccio, lo scorfano e le seppie. Il pesce lo rosolavano nella sugna perché a Ischia ogni famiglia allevava il maiale, o più di uno, a seconda del fabbisogno».

L’isola terragnosa e collinare metteva i piedi a mare di rado ma, quando ciò avveniva, si riscriveva il libro della bontà.

«Gli ischitani – continuava Ciccio - emigravano in California, a San Pedro, dove c’è una comunità di pescatori isolani come a Perth in Australia, e a Mar del Plata in Argentina. Invece nel Sud della Francia, a Sète, andò Francesco Buono, mio nonno, che preparava proprio la Bouillabaisse. Noi ci siamo trasformati in ristoratori, senza mai lasciare, però, la nostra Ischia Ponte dove è nato il soprannome, Bubbessa, con il quale ci conoscono tutti».1 FOTO UNO2Giuseppe Lauro

Ah!, Sète, che posto da favola con la sua laguna protetta, scrigno di ostriche stupefacenti! Un porto grande da cui si muovono le linee blu di navigazioni che si legano all’Africa e attraversano anche il nostro cuore con una dimensione trasversale d’attraversamenti, partenze, approdi, fame, sacrifici, ricchezze effimere, migrazioni, espatri.

Per inciso, «ogni scorfano, come lo scarrafone, è bell’ ‘a mamma soja». Più di Pino Daniele, pace all’anima sua, lo affermano i pescatori ischiapontini d’oggi, a cominciare da Giuseppe Lauro da Campagnano, che si è fatto fotografare pazientemente l’altra mattina, a bordo del «Lino» fermo «a murata». Giuseppe teneva in bella vista proprio una spasella di scorfani arancioni di profondità (si chiamano pure occhioni come tutti i pesci che vivono quasi al buio, laggiù, a cominciare dalle pezzogne) sormontata da un cugino verace d’alto lignaggio, brillante e grosso.

Comunque intervistai Ciccio perché mi preparavo all’appuntamento con una sfida pazzesca – ci sarebbe stata il 5 giugno del 2010 - firmata da Slow Food e ospitata nei Giardini di Palazzo d’Avalos a Vasto, la cittadina adriatica con cui condividiamo incursioni di Saraceni e, appunto, gli sfarzi della dinastia d’Avalos: il condottiero Ferrante sposò la poetessa Vittoria Colonna, giusto?

Quella gara era intitolata «Brodetti e zuppe di pesce, tradizioni italiane a confronto», e vi partecipai spiegando a un pubblico attento, con un parterre di classe, non solo la storia di Bubbessa, ma anche della «zuppa di pesce ischitana».

 

LA VERTIGINE DELLA LISCA

Tra il dibattito e l’abbuffata, fu uno scontro tra titani, due mari, diverse culture, alcune papille parallele che sentenziano il nostro gusto. Affinità e differenze furono cucinate insieme. Dal golfo di Napoli e da Ischia, spiegai che il paragone era improponibile: «Volete mettere il coccio pizzuto, lo scorfano rosso fuoco di scoglio da media profondità, la tracina o un grongo e gli altri interpreti del nostro codice culinario, con i “pezzi” che si mettono nel brodetto?».

Non ammettevo confronti.

«La nostra zuppa raggiunge la vertigine della lisca», aggiunsi sorridendo assai – giocando con un titolo di Umberto Eco – e rivendicando la succosa e inconfondibile, complicata responsabilità «di mangiare con le mani quei pesci divini, scartando, sputando le spine».

Senza spine, che zuppa è?

A svelare i segreti del brodetto, che a Giulianova chiamano «lu vredòtte», mentre a Vasto è «lu vrudàtte», c’erano Raffaele Grilli, Raimondo Pascale e Raffaele Cavallo di Slow Food; il sindaco di Vasto, Luciano Lapenna; con Antonio Attorre, Alberto Fabbri, Antonio Mucci; Cinzia Scaffidi che poi avrei ritrovato a Cipro; Marco Bolasco. Discutemmo di soffritto e poi: sugo, o brodo? E con quali pesci, interi o a tranci? Il match non durò poco. A mettere tutti d’accordo ci provò sua maestà Niko Romito, chef tristellato, con una «Lectio magistralis» tra microfoni e telecamere da show cooking.

Ma alla fine, citando Ciccio ‘e Bubbessa, il sindaco ammise che la nostra zuppa ischitana «è un’altra cosa».1 FOTO UNO2Italo Ferri a Vasto - brodetto

Sfiniti, ce ne andammo a cena alla trattoria «Da Ferri» affacciata sul porto di Punta Penna di Vasto:

il vero re del brodetto, il maestro cuoco Italo Ferri, ce la mise tutta. Ci diede un saggio godibilissimo d’esperienza, con il meglio del meglio, tra comodi deliscaggi, gallinelle, filetti di triglia, il merluzzetto e il peperone verde dolce lungo; e qualche crostaceo. Ma non cambiai idea, per la differenza di volume saporoso, sintesi di materia goduriosa, salinità dell’habitat di provenienza, pasture stanziali ed elaborazione culinaria made in Tirreno

 

BRINDO AI RICORDI CON IL KALIMERA DEI RECORD

Ricordi e «record» sono la stessa cosa. Ecco perché stappo una bottiglia speciale – conservata nella mia cantina in condizioni ottimali  – per brindare alla zuppa di pesce, accompagnandola mentre mi godo l’intensità appetitosa d’una testa di scorfanetto d’acqua nostra… e ripenso all’avventura adriatica.

Nel 2019 solo cinque vini italiani, e uno di questi è stato prodotto a Ischia, erano da annoverare tra le 50 migliori bottiglie al mondo selezionate nel prestigioso concorso «Best in Show award» per il «Decanter World Wine Awards 2019».

Non ditemi che avete già dimenticato che quel riconoscimento pazzesco – Decanter ha un gruppo di esperti da paura, con 280 giudici provenienti da ogni parte, tra specialisti, master of wine e master sommelier – è stato vinto dal «Kalimera 2017» prodotto dall’azienda Cenatiempo Vini di Pasquale Cenatiempo.

Pasquale è un vero fratello, nel senso magnifico dell’amicizia, e ogni chance è buona per esaltarne i successi – bevendoli! - ottenuti grazie al lavoro eccezionale, attento, meditato, scrupoloso che fa insieme al suo affiatato pool di collaboratori, a cominciare dalla preziosissima compagna Federica Predoni.

Quando ho scritto di lui, il giorno dell’annuncio vittorioso, ho precisato che la sua è una realtà fondata nella prima metà del secolo scorso con l’intento «di esprimere la natura vulcanica e marinara della terra ischitana».

Ma è anche molto di più: è un tuffo nella nascita di tutto e di tutti noi, non solo perché «kalimera» era il «luogo bello» dei nostri progenitori che ci regalarono la civiltà del vino, ma perché rafforza la bellezza del rapporto etico che condividiamo con la terra. Per la quale vale la pena lottare.

1 FOTO UNO2Kalimera

Il Kalimera, prodotto per la prima volta nel 2009, è un Biancolella in purezza allevato in terreni oltre i 400 metri di altezza sui versanti sud-est e sud-ovest dell’isola. La vendemmia si fa a fine ottobre, e l’affinamento in bottiglia si protrae per almeno un paio di mesi: se ne prende cura l’enologo Angelo Valentino.

Qualcuno mi ha sconsigliato di aprire la mia ultima bottiglia evocatrice del trionfo. E perché mai? Per collezionarla? Ma dai… Così l’ho stappata con soddisfazione emozionante, pensando che poi vincerà ancora, più in là… con un’altra annata.

Intanto questo vino 2017 pluridecorato è in perfetta forma, e in bicchiere si trasforma respirando sotto la mia contemplazione. Occhi chiusi. Lo riconosco. Mi riconosco. E finalmente sto zitto.

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Le foto di Italo Ferri e del brodetto sono del carissimo amico Bruno Granito© 2010, magnifico compagno di viaggi e reportage che hanno fatto epoca.

Le altre foto sono di Rosanna Magno© 2021 per «Discover Italia».

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