Dove lo sguardo può spaziare tutto intorno, inquadrando i monti più vicini, anch’essi figli della catena dei Picentini, e poi, in tutte le altre direzioni, i Lattari, gli Alburni, l’inconfondibile Vesuvio e, più lontano, le catene del Partenio e del Matese, fino al golfo di Napoli e alla sagoma dell’isola d’Ischia nelle giornate in cui il cielo è particolarmente terso.

Ė dalla vetta del Monte Toro, la più occidentale dei Picentini, a 1567 metri d’altezza, che si gode questo stupefacente panorama a 360 gradi. Un luogo di rara bellezza racchiuso nel territorio di Calvanico, nel Salernitano, mentre l’intera montagna s’innalza al confine con l’Irpinia e ricade in parte anche nei territori di Montoro e Solofra.

Su quella vetta la leggenda racconta di un’apparizione dell’arcangelo Michele nel Medio Evo. Ciò che spiega l’importanza del culto micaelico che vi si pratica, motivo per il quale la denominazione più usata e nota del monte è proprio Pizzo San Michele. Meta di pellegrinaggi, seguendo percorsi che si snodano lungo i fianchi della montagna considerata sacra, fino alla cima su cui sorge il più alto santuario in vetta d’Italia. Dedicato, ovviamente, a San Michele.

Oltre al Sentiero della Scorza che sale da Solofra, il più lungo, c’è il Sentiero CAI 115 che parte da Calvanico, in piazza Conforti, e per le sue caratteristiche si presta ad essere utilizzato anche da chi non è particolarmente esperto.

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Riferimento lungo quell’itinerario è il Casone De Fazio, edificato nel 1925 a 1120 metri d’altezza. Lì vicino, nella zona conosciuta come Acqua Carpegna, si trova una fontana con acqua di sorgente, dove si fa scorta prima di intraprendere la parte finale del cammino, rigorosamente a piedi tra boschi fitti di castagni e faggi, che si alternano a tratti privi di vegetazione. Sempre nei pressi del Casone si trovano i resti dell’antica calcara, dove veniva lavorata la calce usata per la costruzione degli edifici sulla vetta.

Lungo l’ascesa alla vetta, che secondo un’antica credenza va fatta da soli escludendo categoricamente le coppie, i punti salienti accolgono delle croci votive, che rappresentano altri riferimenti cari ai pellegrini: la prima della serie è posta in corrispondenza dell’incrocio con il sentiero CAI 136. A metà percorso, poi, s’incontra un’edicola con la venerata immagine di San Michele, accompagnata da un’epigrafe con una puntuale indicazione cronologica che ne fissa l’origine al 1616. Seguite diverse curve, si compie la parte finale del cammino che raggiunge la Pietra Santa, chiamata così per la presenza di una pietra con una croce dipinta sulla quale viene appoggiata la venerata statua seicentesca di San Michele d

Dopo varie curve, prima di intraprendere la salita finale, si raggiunge la Pietra Santa, chiamata così perché c’è una pietra con una croce dipinta su cui è d’uso appoggiare la statua del santo durante le numerose processioni che si svolgono nel corso dell’anno. L’ultimo tratto, decisamente brullo, conduce finalmente alla vetta con il suo panorama mozzafiato e con il complesso del santuario, il cui nucleo originario risalirebbe all’epoca longobarda, anche se la prova documentaria della sua esistenza è soltanto della metà del XVII secolo.

Agli edifici più antichi, che si identificano oggi con la cappella di Sant’Agostino, il contiguo rifugio e l’annesso deposito con cucina, sempre aperti per accogliere i pellegrini, si affianca la cappella dedicata all’arcangelo, molto più recente, giacchè risale al periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, tra il 1945 e il 1949. A costruirla con pietre spaccate e la calce preparata nella calcara posta più in basso furono uomini e donne, che trasportarono a piedi e con notevole fatica tutti i materiali. E mentre gli uomini venivano pagati per il loro duro lavoro, le donne, che non si sottrassero a nessuna delle incombenze più faticose, furono chiamate a prestare la loro opera da volontarie. 

C’era in origine anche un campanile, che colpito a più riprese da fulmini, venne trasformato in cisterna nel 1965, al fine di assicurare una minima riserva d’acqua ai pellegrini. Un ristoro dopo l’impegnativa salita che sulla vetta regala la grande bellezza.