Aveva solo venticinque anni quando la vita la abbandonò. In suo onore fu costruita una grande tomba, come era d’uso fra le famiglie nobili e ricche della comunità, dove un letto di pietra accolse le sue spoglie.

E per accompagnarla nel viaggio, insieme ai consueti oggetti di uso quotidiano, fu collocato nel sepolcro un prezioso corredo funerario, con monili finemente lavorati, tutti in oro: anelli, una collana dai numerosi pendenti tutti diversi, un bracciale con serpenti. Per ventiquattro secoli nessuno ne aveva conosciuto l’esistenza, di quel piccolo tesoro nascosto. Finchè il gruppo di lavoro venuto da Edmonton, in Canada, non aveva ritrovato quella tomba a cui aveva assegnato il numero 9. E quando l’analisi dello scheletro aveva rivelato l’appartenenza a una ragazza, tenendo conto del valore del corredo seppellito con lei, si era alimentato il mito della principessa Fistelia.

È lei, con la sua breve vita ricostruita su ipotesi, la protagonista dell’Antiquarium collocato nell’antica chiesa di Santa Maria ad Martyres, in borgo Sant’Antonio, a Roccagloriosa, e intitolato ad un’altra donna, Antonella Fiammenghi. Sebbene non manchino altri importanti reperti, provenienti dalle altre tombe coeve. Anche quella numero 6, per esempio, ha restituito un corredo funebre di vasi di bronzo, di fattura etrusco-campana e di grande pregio.

Poco distante da quello che viene definito Antiquarium “inferiore”, nel palazzo municipale di piazza del Popolo si trova un altro Antiquarium, il “superiore”. Dov’è una ricostruzione d’atmosfera della bottega del vasaio, con l’esposizione degli importanti vasi ceramici artisticamente dipinti provenienti dalle altre tombe.

Un breve tratto di strada, da fare rigorosamente a piedi senza alcuna difficoltà, conduce nel luogo in cui tutti quegli oggetti sono stati custoditi nel tempo: la necropoli dell’antica città di Leo, in località La Scala.

Lì si trova la serie dei sepolcri a camera, con tetto a doppio spiovente caratteristici  dell’architettura funeraria praticata dai Lucani, intorno alla metà del IV secolo a.C.. Quando era florido l’insediamento sul monte Capitenali, tra le valli dei fiumi Mingardo e Bussento.

Complice la sua posizione, in corrispondenza di alcuni percorsi largamente praticati per gli spostamenti di uomini e greggi, quell’altura era stata frequentata fin dall’Età del Bronzo, per essere in seguito, durante l’Età del Ferro tra l’VIII e il VII secolo, sede di un insediamento stagionale. Due secoli più tardi, era cominciato lo sviluppo continuativo dell’abitato fondato da gente di stirpe lucana, dedita all’agricoltura e all’allevamento.

Su un ampio spazio pianeggiante lungo il fianco del monte, sorgevano le abitazioni di pietra, dalla pianta rettangolare, che con il tempo erano state raggruppate in isolati. Per difendere la città, fu costruito un muro fortificato con grossi blocchi di chiara pietra calcarea, lungo oltre un chilometro. Secondo le caratteristiche tipiche degli insediamenti lucani, all’esterno della cinta muraria, dunque fuori dal cuore della città, trovarono posto le fattorie, presso le quali si trovavano solitamente piccole necropoli. Indagate, come tutto il sito di Leo, dagli archeologi canadesi fin dai primi anni ’80 del secolo scorso.

Una ricerca che ha già riservato interessanti scoperte. Tra quelle, il frammento di una lamina di bronzo sul quale, nella lingua osca così come la parlavano i lucani, ma scritte in caratteri greci, erano citate alcune “leggi” relative alla disciplina amministrativa della vita degli abitanti. A testimonianza, insieme alle strutture della città e della necropoli, del livello molto avanzato di organizzazione che aveva raggiunto quella comunità tra il IV e il III secolo a.C.