Lungo la strada che fiancheggia l’area occupata dal Foro, cuore della città romana, si distingue, tra tutte, la bottega di un artigiano legato a una produzione tanto particolare quanto identificativa dell’antica Paestum: il profumo.
A caratterizzarla in modo inequivocabile anche per i posteri è un torchio di marmo bianco, collocato ancora nel posto in cui svolse anticamente la sua funzione per un paio di secoli, tra il I e il III d.C. Serviva, quell’oggetto, ad ottenere dalle olive verdi l’omphacium, l’olio di oliva di migliore qualità che era una delle materie prime fondamentali per la produzione degli unguenti profumati. In particolare, per il più diffuso e famoso tra quelli in uso presso i Romani, ovvvero il Rhodinum italicum o, secondo la definizione greca originaria, il Rhodinon italikòs, dal cui nome si evince l’essenza fondamentale da cui era composto, ovvero la rosa, in greco antico rhodon appunto. E Paestum era il luogo ideale per quella produzione, visto che intorno alla città ampi appezzamenti di terreno erano dedicati proprio alla coltivazione delle rose. Che, grazie alle condizioni climatiche particolarmente favorevoli e alla comprovata fertilità della pianura pestana, erano disponibili per gran parte dell’anno. Questa caratteristica si era ben presto rivelata fondamentale per il loro successo commerciale e la loro diffusione, soprattutto a Roma, in alternativa alle rose prodotte in Egitto e in oriente, la cui importazione, pur essendo possibile a prescindere dalle stagioni, era estremamente costosa e, per forza di cose, limitata.
È Virgilio che nel IV libro delle “Georgiche” decanta la rosa di Paestum “bifera”, ovvero rifiorente. I roseti, infatti, garantivano fioriture non solo in primavera, ma anche in autunno inoltrato fino all’inverno. Ciò consentiva di soddisfare la richiesta in continua crescita di fiori recisi per la Campania e ancora di più per l’Urbe, dove la classe agiata abbelliva le proprie residenze con rose profumate, oltre a fare largo uso di petali di rosa per le decorazioni domestiche e l’accoglienza degli ospiti ai banchetti.
Rosse e profumate
Le rose più apprezzate erano le rosse, sebbene fossero diffuse anche quelle rosa. Secondo il mito, Venere, a cui la rosa era sacra, nel correre in soccorso del giovane Adone di cui si era perdutamente invaghita e che era rimasto mortalmente ferito dall’attacco di un cinghiale, si ferì a un piede con una spina. Una goccia del suo sangue cadde allora su una rosa bianca, donandole il deciso colore carminio che da quel momento l’avrebbe maggiormente contraddistinta. E che sarebbe stato cantato nei suoi versi amorosi da Marziale e, diversi secoli dopo, anche da Torquato Tasso.
Doppia e con numerosi petali, quella pestana era una rosa damascena. Particolarmente profumata, come la celebrarono Marziale e Properzio, era indicata per le tante preparazioni che fin dall’antichità aveva ispirato. A cominciare proprio dal “Rhodinum italicum”, ottenuto accompagnando ai petali odorosi olio, resine o gomma come fissatori, sale e altri ingredienti a seconda delle ricette utilizzate, non escluso il vino. Tutte, però, al fine di esaltare il colore rosso dei fiori, prevedevano l’aggiunta di cinabro o di ancusa.
La produzione di profumi e di rose venne meno con la decadenza e l’abbandono della città. Solo i versi dei poeti tennero viva presso i posteri la memoria del consolidato e celebrato connubio tra la città dei templi e la regina dei fiori. Finché nel 1938, l’allora sovrintendente, il grande archeologo Amedeo Maiuri, decise il ritorno delle rose all’interno delle antiche mura greche che ancora delimitano la città antica. L’area prescelta fu quella intorno al tempio di Cerere, dove furono messe a dimora 400 piante di rose, che a primavera iniziarono a riempire di nuovo l’aria di Paestum con il loro profumo. Ancora più presente oggi nell’estesa area archeologica, grazie al roseto impiantato qualche anno fa dal Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, in collaborazione con la Soprintendenza, su un progetto di recupero di una rosa simile all’antica damascena pestana firmato dal botanico Luciano Mauro.
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