Da sette secoli è meta di pellegrinaggi tra l’ultima domenica di maggio e la prima di ottobre.
Sul “monte dell’idolo”, secondo l’etimologia araba del nome Gelbison, a 1705 metri di altitudine, sorge il Santuario del Sacro Monte di Novi Velia, antico luogo di culto mariano noto anche come Monte Sacro o Madonna del Monte.
Il santuario più alto d’Italia, nel territorio di Novi Velia, è luogo di emozioni forti, di suggestioni potenti, di scoperte affascinanti. Fin dalle pendici del monte, a Novi Velia, dove parte il percorso lastricato di circa tre chilometri e mezzo che conduce sulla vetta. Solo uno dei possibili itinerari storici: l’altro, preferito dai fedeli provenienti dalla Lucania e dalla Calabria, è la mulattiera che inizia dalla valle del Rofrano. Nell’un caso e nell’altro, si tratta di cammini da percorrere a piedi o a dorso di mulo, accompagnati da stupefacenti spettacoli naturali man mano che ci si inerpica tra i boschi rigogliosi di castagni e di ontani che fasciano i fianchi del Gelbison. Dove si trovano antri e ripari che offrivano un tempo rifugio ai pellegrini, spesso provenienti da molto lontano. La salita è segnata da varie tappe, obbligate dai piccoli riti collettivi che si sono consolidati nei secoli. Come la sosta rigeneratrice alla fontana di Fiumefreddo, per dissetarsi con acqua pura e fresca e abbeverare i muli prima di affrontare l’ultimo tratto dell’ascesa al santuario.
A segnalare l’avvicinamento alla cima, il luogo cosiddetto del Manto, con la pietra dove secondo la tradizione la Madonna si sarebbe seduta per cucirsi la veste. Lì ci si sofferma in preghiera e si affronta il passaggio in uno spazio stretto: chi non riesce a superarlo, si dice che non sia in grazia di Dio, ma era consigliato soprattutto alle spose, come atto propiziatorio per la nascita di un figlio. Si riprende la salita con una pietra, come penitenza, e per lasciarla nel mucchio formato dai fedeli di ogni tempo, alla base della Croce di ferro, sopra il cosiddetto Giardino della Madonna, nel punto in cui convergono tutte le strade verso il santuario. La Croce, illuminata di notte, si vede da ogni angolo del Cilento. E intorno ad essa lo sguardo domina l’intero Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano.
Prima di volgersi verso il santuario, vengono benedette le “cente”, delle sculture di ceri votivi a forma di barca o di torre, a seconda dei paesi che rappresentano, e decorate con nastri colorati, che si portano in dono alla Madonna. Prima di entrare nella chiesa, la tradizione vuole che si compiano sette giri intorno al suo perimetro. E molti pellegrini entrano in ginocchio.
Il santuario sulla vetta si trova nel sito di un antico tempio italico, forse innalzato dagli Enotri in onore della dea Era. A edificare la chiesa cristiana nel X o XI secolo furono i monaci basiliani provenienti dall’Oriente, che all’inizio si erano stabiliti da eremiti nelle grotte che si aprono sul monte. L’edificio sacro, citato per la prima volta in un atto di Ruggero il Normanno del 1131, fu in seguito ampliato dal vescovo di Capaccio e nel 1323 fu acquistato dal nobile Riccardo di Marzano per trasferirlo ai monaci celestini a cui aveva già donato il suo castello. All’estinzione dei celestini la chiesa passò di nuovo al vescovo di Capaccio.
A tre navate, divise da colonne di pietra, coperta da una volta a botte affrescata, la chiesa accoglie alcune statue lignee tra le quali quella della Madonna, dalle fattezze orientali, con il Bambino. Del complesso religioso fanno parte anche la cappella di San Bartolomeo, il convento e la foresteria. Dallo spazio antistante il santuario lo sguardo spazia fino all’Etna e allo Stromboli a sud e a Capri e Ischia verso nord. Uno spettacolo a perdita d’occhio. Indimenticabile.
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