In inverno, più delle altre stagioni, il cielo sembra essere pieno di strade e ponti, di emozioni e di pensieri, di scie di uccelli e di delicate carezze di nuvole. In inverno l’orizzonte sembra più irraggiungibile anche se la mia mente ha voglia di mettere le ali e raggiungere quel confine invalicabile, quel punto dove ho nascosto i desideri difficili da realizzare. Per fare ciò cerco sempre nuovi punti da dove scrutarlo e da dove potrebbe essere più facile spiccare il volo. Quindi devo cercare un nuovo punto di osservazione.
Ieri ho fatto il pane e i taralli al finocchietto. Oggi giornata assolata di febbraio, io Giuseppe e Giacomo abbiamo riempito lo zaino del pic-nic, possiamo andare!! Partiamo quasi sempre a piedi da casa e andiamo dove ci porta il cuore, sempre. Difficilmente organizziamo un percorso, lo improvvisiamo, ci piace di più, ce lo gustiamo di più. Zaino in spalla e iniziamo ad andare, percorso difficile e ripido almeno per il mio allenamento, arriviamo in cima a monte Sant’Angelo, Marzanello, pochissimi chilometri da Pietravairano. Ci sono vari resti di antichi insediamenti sanniti e lunghe mura megalitiche. Per noi uno spettacolo che profumava di storia, abbiamo osservato e accarezzato ogni singola pietra quasi a voler percepire attraverso esse le vicende vissute in quel luogo ormai dimenticato.
Oltre la storia, lassù, c’è un panorama mozzafiato e in inverno con una giornata assolata sembra essere circondato da magia. I miei occhi vanno lontano all’orizzonte e osservano il cielo che si confonde con la terra lontana cercando di svelare cosa c’è oltre l’infinito. Cerco nell’orizzonte ciò che forse ho nel profondo del cuore, cerco di vederlo bene, di scoprirlo, di osservarlo. Difficile da descrivere.
Mi distraggo osservando la natura intorno: un terreno arido, poca vegetazione, brullo, solo qualche anemone stella. Secondo Plinio il Vecchio, lo scrittore e naturalista che morì durante l'eruzione del Vesuvio, nel 79 d.C. indossare il primo anemone stella dell'anno, avrebbe avuto il potere di allontanare tutte le negatività. Forse oggi non capirò cosa c’è oltre l’orizzonte o in fondo al mio cuore ma sicuramente avrò una giornata positiva, sempre secondo Plinio!!! Facciamo merenda e dopo qualche foto iniziamo a scendere, il cammino è lungo e il giorno è ancora corto. Scendendo trovo dei porri selvatici, febbraio è il mese giusto per raccoglierli, non sono molto grandi ma profumatissimi. Più avanti trovo delle piantine di ruta e anche di queste raccolgo qualche cima tenera, ha un profumo per nulla accattivante ma ho finito la mia acquavite alla ruta e devo rifarne altra. Pianta curativa, non ne conosco tutte le proprietà ma di sicuro conosco il detto “uogliu cauru e ruta ogni mal’ astuta”: si usava mettere in infusione nell’olio d’oliva caldo le foglie di ruta per poi fare i massaggi. Olio dall’odore molto caratteristico. Questo comunque è uno degli aspetti che amo nelle mie passeggiate: prendere i regali della natura. Arriviamo a casa che è ancora giorno per fortuna. Devo pensare ad una cena più sostanziosa rispetto al pranzo, vado nell’orto, mi verrà qualche idea. Trovo due carciofi, farò un risotto.
Risotto carciofi e porri selvatici
Tolgo le foglie dure e le punte dai carciofi, le lavo e le metto in una pentola con le code dei porri, due foglie di sedano, una carota e un quarto di cipolla e faccio il brodo. Taglio a pezzetti i carciofi, due porri selvatici, e un quarto di cipolla, metto olio di oliva e faccio appassire. Verso quindi 300 g di riso, mescolo e bagno con 1/2 bicchiere di vino bianco, faccio evaporare bene su fiamma vivace e unisco qualche mestolo di brodo bollente. Mescolo bene e porto a cottura il riso per 20 minuti a fuoco moderato aggiungendo il brodo bollente poco per volta quando si asciuga e mescolando spesso in modo che il risotto non si attacchi sul fondo. A fine cottura faccio asciugare il brodo e tolgo dalla fiamma. Manteco il risotto con una noce di burro e parmigiano, spolvero con ciuffetto di prezzemolo tritato e servo subito. Inutile raccontarne il profumo...
Taralli al finocchietto (come li faceva mia nonna Mariannina)
Un kg di farina, 250 ml di olio evo, due bicchieri di vino bianco, tre cucchiaini di sale, due bustine di lievito di birra secco (mia nonna usava il “criscito” alias lievito madre), se occorre un pochino di acqua, un cucchiaio di finocchietto selvatico. Impasto tutto ben bene fino a far diventare liscio l’impasto. Lo faccio lievitare due ore. Faccio i taralli e li metto in fila sul tavolo di legno. Il passo successivo, se vogliamo che vengano belli lucidi, è quello di farli cuocere in acqua bollente, basta immergerli e aspettare che vengano a galla. Una volta tolti, li scolo per bene e lascio asciugare su un canovaccio pulito. A questo punto li metto in una teglia con carta forno, via in cottura a 200 gradi per venti minuti, forno ventilato. Saranno profumati e croccanti e pronti per essere accompagnati ad un buon bicchiere di vino rosso.
Acquavite alla ruta
Prendo i rametti di ruta e li lavo accuratamente mettendoli in immersione in acqua fredda. Asciugo le foglioline delicatamente con un panno di cotone. Inserisco i ramoscelli nella bottiglia di acquavite e li lascio in infusione per almeno due mesi. La bottiglia chiusa deve stare in un luogo asciutto e al riparo da fonti di calore. L’acquavite assorbirà in modo graduale l’aroma e il colore della ruta, passando da un verde più chiaro ad un verde più acceso, qualcuno mi ha detto che sembra diventare di plastica. Se l’aroma è troppo intenso tolgo alcuni ramoscelli ma ne lascio solo uno piccolo nella bottiglia, manterrà il profumo dell’acquavite sempre fresco e dal colore verde chiaro pallido. Sarà un ottimo digestivo da gustare sempre in compagnia, perché bere da soli mette tristezza. #amocucinareperchiamo
___