Le variazioni sul tema sono infinite. Farine e nuvole; semole, panetti e grammi; lieviti madri e padri, e lievitazioni lunghe o farlocche; paste cresciute o screscitate; forni, a legna, a gas, elettrici; e poi, leggerezza, umidità ed elasticità; pioggia, sale e sole… E, ancora, basse e alte; condimenti e topping, imbottiture, cornicioni, canotti, fritture, mozzarelle e… fregature.
La pizza è sinonimo di globalizzazione, naturalmente, come il riscaldamento, l’omologazione, l’alta finanza e i cento straricchissimi «paperoni» che guidano la Terra sperando che non vada a sbattere.
La regale pizza – la regina - è un cibo del quale non si può fare a meno: è onnipresente, è un bene materiale e immateriale, è un fior di business, è un approdo mentale, un nucleo di discussione faziosa o paciosa; un riempipancia e un maldipancia e un godere collettivo, pubblico o privato (quando c’è l’asporto o il delivery).
Al termine di un lungo itinerario tra i «posti» dove si prepara la pizza, a Ischia, pensavo di poter stilare una piccola guida di servizio, ma l’intento si è squagliato – da sé – nel nulla. Tutto, o quasi, sbagliato e da rifare, citando Ginettaccio Bartali e non Paolo Conte…
Vado per ordine, parliamo dei «posti» dove andare. Il trend è consolidato: ristorante-braceria-pizzeria. Antipasti e antipastoni, piatti soliti, scelta di carni e poi «margherite» a go-go. Il trittico è servito per buona parte delle proposte, panacea di ogni premessa e promessa gustatoria. Alternativa? Ristorante (con un menu leggermente innovativo) e pizzeria. Infine, il classico alla napoletana: pizzeria e rosticceria, magari col girarrosto. Mescoliamo, in ogni caso, tutte queste soluzioni e chiediamoci, alla fine: «Ma la pizza, era buona?».
Ho già anticipato il risultato: in questo periodo, non è cosa, sospendo il giudizio. Ho spesso strapagato (il conto) per pseudo-pizze che non meritano ricordi, peraltro in un contesto approssimativo o addirittura pessimo di accoglienza.
«Croce nera», come dice Rosanna… che se ne intende.
Tranne in un paio di casi, omettendo quelli (la maggioranza) dove non tornerò a cuor leggero.
Il primo, in ordine cronologico, è il «Ristorante Al Vecchio Capannaccio» (sulla Borbonica, via Baiola, a Forio – tel. 081.987571), che da un anno ha completato un interessante restyling, con una invitante cantina (‘A Cantina, ma occorre aggiustare l’aferesi messa al contrario, sull’indicazione all’ingresso) che accoglie chi desidera una privacy garantita: mi piace. Qui, dopo alterne fortune, ho ritrovato una «Pizza Vesuvio» davvero simpatica e convincente, con una sola parziale sbavatura alla base del disco, un piccolo sentore d’olio e carbonella, innescato da qualche strascico sui refrattari. Per il resto, me la sono goduta, osservando con compiacimento l’organizzazione nel servizio. Da rigiudicare, eventualmente, il «Calzone fritto»: non al top, ma neppure in carta e, dunque, perdonato.
Il secondo punto fermo è «La Rosa dei Venti», ristorante sulle colline della Testa a Barano (tel. 081.902297) con panorama non dozzinale sul golfo. Qui il signore indiscusso della pizza è Mario Buono, che ha studiato molto, s’è dato da fare, e ha conservato il sorriso umile che è un segno di professionalità, anche se – ormai – la sa lunga, indirizzandosi su una strada di vertice: ha scelto il versante glamour e gourmet. Non facile, fare i fuochi d’artificio, se non ci vai giù pesante con la selezione dei prodotti, in termini di cura maniacale.
Ho fatto fuori con leggerezza una pizza che vale un pasto e ti lascia quel pizzico di fame, nonostante la chilometrica composizione: è la «Nerano» (nella foto in alto), con crema di zucchine, fiori di zucca, chips di zucchine, ketchup di pomodoro, infuso di provola, cialda di Grana e scaglie di Provolone del Monaco. E poi? Addirittura doppia cottura, fritta e poi ripassata al forno, e servita sul tagliere. Diciamo che avevo lanciato la sfida, e Mario mi ha risposto come un autore provetto, anche se con qualche tentazione nell’ornamento frou frou. Il prezzo? 14 euro. Giusto.
Una curiosa considerazione finale. Da Vesuvio a Nerano, nei titoli pizzaioli, trovo una moltitudine di indicazioni toponomastiche… straniere. Voglio provocare. E se facessimo la Pizza Schiappone, la Pizza Borbonica e il Calzone Spalatriello? Quella «Ischia» c’è già, da qualche parte… Ah, ah, che provinciale che sono. O no?
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