Con il suo movimento lento, circolare, ininterrotto, l’asino copriva chilometri su chilometri senza allontanarsi dalla sua postazione sotto il sole, compagno fedele dall’alba al tramonto.
Bendato tutto il tempo, il quadrupede svolgeva il suo compito ingrato, ma indispensabile, per azionare la grande ruota che dissetava la spianata verde. Uno dopo l’altro, i secchi capienti della noria pescavano dentro la terra, traendone l’acqua preziosa da raccogliere nella grande pischera dove sarebbe rimasta tutta la notte a raffreddare, prima di essere distribuita nei solchi accoglienti. Così come emergeva dal suolo, alzando una fitta cortina di vapore, quel liquido non sarebbe mai potuto servire nell’orto. Troppo caldo e ricco di sale, avrebbe distrutto le piantine al primo contatto. Eppure, quelle sue caratteristiche, una volta “depotenziate”, erano da sempre il segreto delle rinomate primizie della valle di Citara. Ricercate in ogni contrada dell’isola, dove le donne si occupavano di andarle a vendere ogni mattina, ma anche fuori, fino a Napoli. Con regolarità, ogni settimana, i bastimenti diretti in città andavano a caricare gli ortaggi prodotti nei floridi terreni dietro la striscia sabbiosa, distesa per più di un chilometro tra il promontorio del Capizzo e quello, più imponente, di Punta Imperatore, con il suo antico faro.
La spuma di Afrodite
Aveva fama di fertilità, quel sito lungo la costa occidentale dell’isola. Da molto tempo prima che diventassero celebri i suoi pomodori grandi e succosi, i primi ad arrossare a Ischia. Non a caso, i greci di Pithekoussai avevano voluto dedicarlo al culto di Afrodite, tra loro largamente diffuso, con un tempio proprio lì dove giungeva la spuma fecondatrice del mare che l’aveva generata. La leggenda, trasformata in letteratura e consegnata ai posteri nel XIV secolo dallo storico Giovanni Villani nella sua Nova Cronica, identificava in quell’edificio sacro, presso il quale la bella Elena si sarebbe recata in preghiera alla dea, il teatro del suo rapimento da parte di Paride e l’inizio della guerra omerica tra Greci e Troiani. Al di là del mito, l’esistenza del tempio era testimoniata dalla grande statua di marmo bianco raffigurante Venere Citerea ritrovata sul lido ischitano, dove avrebbe sfidato i secoli fino al 1792, quando venne inesplicabilmente distrutta. Ma il legame con Afrodite era ormai destinato a rimanere per sempre in quel luogo. Nel nome, Citara, e nella sua vocazione di terra della fertilità.
Quella ricca sorgente sotterranea
L’acqua calda utile alle coltivazioni era stata identificata già dai Pithecusani come liquido salutare, fonte di feracità. E i Romani non avevano certamente trascurato quella straordinaria risorsa termale, che emergeva non appena si scavava di qualche centimetro nella valle lambita dal mare. Allora molto più ampia, spiaggia compresa, considerato che i grossi scogli noti come Pietra Bianca, Nera e Rossa, che un tempo erano all’interno della linea di costa, oggi emergono dal mare ad una distanza di diverse decine di metri. E prima che venisse conquistata dal mare, era proprio vicino alla Pietra Rossa, colorata dai vapori delle fumarole, che venivano solitamente scavate le buche per fruire dell’acqua che donava salute. Così, nel XIV secolo, dunque all’epoca di Villani, il bagno di Citara era citato in un documento tra i cinque attivi e frequentati sull’isola d’Ischia.
Fu poi due secoli più tardi, quando il termalismo ischitano iniziò ad essere studiato scientificamente, che Giulio Jasolino identificò le specifiche caratteristiche dell’acqua di Citara, facendone discendere i consigli sul suo uso terapeutico più appropriato. Che riguardava principalmente la lotta alla sterilità sia maschile che femminile: «vale allo spasimo…alle donne sterili, fa effondere il seme agli uomini e alle donne, dagli abitatori del luogo s’è fatta esperienza come non solo ristora le forze indebolite, ma le rende anche alle amorose battaglie molto più potenti e robuste…giova alle donne sterili per fare concepire, a quelle che lattano, accresce meravigliosamente il latte», sentenziò lo studioso calabrese. Una descrizione/prescrizione destinata a fare scuola e a essere rigorosamente seguita a posteriori dai medici isolani, che tra il Settecento e l’Ottocento accoglievano e indirizzavano alle numerose sorgenti termali di Ischia quanti arrivavano da ogni parte d’Europa, per trovare risposta ai loro vari problemi di salute.
A Citara, l’avanzata del mare, legata al lento abbassamento dell’isola, fagocitò in seguito il sito della Pietra Rossa, dov’era anche una salina importante per l’economia del luogo. Ma la ricca vena di acqua termale sotterranea fu intercettata altrove, verso Punta Imperatore, continuando a essere meta di isolani e forestieri. Che vi trovavano anche una misera costruzione adibita ai bagni.
A beneficiarne, secondo una narrazione tramandatasi nel tempo, fu anche una regina. Proprio all’inizio del secolo ventesimo, in piena estate, una nave militare tornò per diversi giorni nella baia. Ogni volta, scendeva a terra un gruppo di donne, che trascorreva del tempo ai bagni di Citara, prima di tornare ad imbarcarsi. Di bocca in bocca si sussurrò che tra le visitatrici vi fosse anche la regina Elena, che non aveva ancora dato un erede a Vittorio Emanuele III. La prima figlia, Iolanda, arrivò l’anno successivo…
Dall’abbandono alla rinascita nel segno dell’acqua
Sebbene in gran parte adibita alle prospere coltivazioni orticole, la valle di Citara era anche un punto di riferimento del termalismo ischitano, sempre più affermato anche all’estero. Ma alla riconosciuta qualità dell’acqua calda sotterranea e ai vantaggi di un microclima che scienziati di fama avevano lodato come ideale per la sua salubrità, faceva da contraltare il pessimo stato in cui versava il sito termale, lasciato quasi in stato di abbandono. In compenso, a partire dagli anni Trenta del Novecento, era cresciuto l’interesse per il possibile uso dei vapori termali di Citara per la produzione di energia elettrica ed erano iniziate le trivellazioni per sfruttare le forze endogene dell’area. Così, non lontano dalle norie azionate dal movimento degli asini, sorse una piccola centrale termoelettrica, poco più di un esperimento, portato avanti a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, fino al 1956, quando l’idea venne abbandonata.
Arrivò anche il tempo dell’abbandono dell’agricoltura, negli anni Sessanta. E la fertile valle sul mare perse anche quella dimensione vitale della sua identità, senza che un’altra si fosse ancora evidenziata. Mentre il patrimonio termale era trascurato e misconosciuto, suscitando stupori tra quanti visitavano quell’angolo di paradiso. Poi, arrivò, inattesa, la svolta. Che portava un nome tedesco, Gernot Walde, un medico che si era innamorato dell’unicità di Citara, modellando sulle sue molteplici caratteristiche ambientali il progetto di un luogo di benessere per la mente e per il corpo tra mare, terme e natura. Nasceva così il primo parco termale, destinato a diventare un elemento peculiare del termalismo sull’isola d’Ischia. L’intuizione di Walde trovò pieno compimento negli anni Settanta, grazie ad un medico bavarese, Ludwig Kuttner, che rilevò gran parte della valle e della spiaggia creandovi i Giardini Poseidon. Dove l’acqua calda e preziosa di Citara ha trovato la sua piena valorizzazione, nell’alimentare le piscine e i percorsi salutari delle terne e nel rigoglio della curatissima vegetazione circostante.
Da Afrodite a Poseidone, è oggi una grande statua bronzea del dio del mare, secondo le fattezze immaginate da Fidia, che veglia sulla valle della fertilità dell’isola d’Ischia.
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