In origine era solo un pane schiacciato e condito con i più diversi ingredienti, a seconda della disponibilità.
Ma il semplice impasto di acqua, farina, lievito e sale è diventato la base di uno dei cibi più famosi e apprezzati nel mondo solo grazie alle tecniche di produzione e alle abilità affinate nei secoli dai pizzaiuoli napoletani.
La loro inimitabile maestria trasmessa di generazione in generazione, per la sua particolarità e per la valenza culturale che ha assunto nel tempo, è stata riconosciuta dall’Unesco, che nel 2017 ha inserito l’Arte tradizionale del Pizzaiuolo Napoletano nella lista dei beni immateriali Patrimonio dell’Umanità.
Era partita da Napoli, otto anni prima, la candidatura che, tra quelle ai più vari riconoscimenti Onu, ha registrato il maggior numero di sostenitori a livello mondiale. Ben due milioni di persone, di oltre cento Paesi, avevano sottoscritto la petizione #pizzaUnesco, approdata sul tavolo del 12° Comitato intergovernativo Unesco per la Salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale, riunito sull’isola di Jeju, in Corea del Sud, dal 7 al 9 dicembre 2017. I 24 membri, rappresentanti di altrettanti Paesi, deliberarono positivamente all’unanimità con la seguente motivazione: «Il know-how culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere è un indiscutibile patrimonio culturale. I pizzaiuoli napoletani e i loro clienti sono coinvolti in un rituale sociale in cui bancone e forno fungono da “palcoscenico” durante il processo di produzione della pizza. Questo processo avviene in una atmosfera conviviale che comporta scambi costanti con i clienti. Partendo dai quartieri poveri di Napoli, la tradizione culinaria è profondamente radicata nella vita quotidiana della comunità. Per molti giovani professionisti, diventare pizzaiuolo è anche un modo per evitare l’emarginazione sociale».
Decisiva nel giudizio del Comitato è stata, dunque, la portata culturale del “fenomeno” pizza nella città dove è nata e si è sviluppata una tradizione che non ha pari in nessuna altra parte del mondo, sebbene ormai come cibo sia diffusa in ogni parte del pianeta. E a testimoniarlo c’è anche l’uso internazionale della parola “pizza”, tra le più conosciute e usate al mondo, accettata senza traduzione in ben sessanta lingue.
Ad essere stati riconosciuti come meritevoli di particolare tutela sono i vari passaggi del processo di lavorazione, che si caratterizzano ciascuno per il patrimonio di conoscenze che presuppone, per la particolare e rituale gestualità, per l’uso di termini specifici, per l’abilità appresa e la creatività individuale che lo accompagna e, non ultimo, per gli scambi, le interazioni e le relazioni che suscita, giacchè la preparazione della pizza avviene, da sempre, davanti a coloro che ne sono i destinatari finali. Nata nelle strade del centro storico di Napoli e nei “bassi”, la pizza tradizionale, anche quando la produzione si è spostata nelle pizzerie e nei ristoranti, è rimasta rigorosamente a vista, con la piena condivisione del pubblico, coinvolto ogni volta in una esperienza sensoriale piacevolmente condivisa.
Artefici della magia che si ripete ogni volta sono i maestri pizzaiuoli, i pizzaiuoli e i fornai, secondo le tre diverse categorie, individuate per capacità ed esperienza. Sono loro che si dividono i ruoli nelle quattro fasi di produzione caratteristiche della pizza napoletana riconosciuta dall’Unesco. La prima è la fase della modellatura del panetto di pasta, che prende il nome di staglio, e deve essere fatta a mano, tagliando dalle strisce di pasta cresciuta a mano il singolo panetto secondo la tecnica usata anche per mozzarella. Poi, dopo la seconda lievitazione, si procede all’ammaccatura, cioè si stende la pasta a mano per creare il cornicione, che deve essere di uno o due centimetri, e assottigliare la parte centrale che non deve superare il quarto di centimetro. La manipolazione del disco di pasta avviene con gesti abili e veloci, detti schiaffi, ed è una modalità peculiare dei pizzaiuoli napoletani.
Si passa poi al condimento. Gli ingredienti vanno distesi dal centro con un movimento a spirale in senso orario. Si comincia dal pomodoro e si finisce con l’olio extravergine di oliva, versato dall’apposita agliara di rame, dal becco lungo e fino, per garantire un filo d’olio sottile e continuo.
Ultima, delicatissima fase, è la cottura nel forno a legna già caldo, a una temperatura tra i 430 e i 480 gradi. La pizza si inserisce con una pala quadrata di legno o di alluminio. Durante la cottura, che dura tra i 60 e i 90 secondi, con una pala di ferro, rotonda, più piccola, si fa ruotare velocemente, il cosiddetto mezzo giro, per garantire la cottura uniforme da ogni lato.
Un’arte antica, che si rinnova ogni volta che viene mostrata, comunicata e trasmessa alle nuove generazioni di pizzaiuoli. I maestri operano a questo scopo nelle loro “botteghe”, nell’accezione rinascimentale, che poi è proprio l’epoca in cui l’arte della pizza napoletana cominciò a muovere i primi passi di un’evoluzione culminata nel XIX secolo. Quando fu creata la Pizza Margherita, la più italiana nei colori e nell’ispirazione, ma anche la più famosa e gustata nel mondo. Con la più antica Marinara, la specialità base della vera pizza napoletana. Che, con l’apertura della prima pizzeria a New York nel 1905, partì alla conquista del mondo. Da allora la “pizza” ha conosciuto innumerevoli reinterpretazioni e variazioni, di forma e di gusto, in linea con le culture gastronomiche di altri popoli e gli ingredienti dei diversi territori. Ma l’Arte di modellare, far volare nell’aria, condire con il cesello e cuocere alla perfezione, in un minuto e mezzo, la Pizza madre di tutte le variazioni si pratica, si vive, si condivide e si comunica solo a Napoli.
___