Ogni vitigno piantato, quando germoglia, è un inno alla gioia. È come una sveglia filogenetica. Fa vibrare. Ti fa venire ‘u fridde ncuollo. Ci riconduce alle radici, ci spiega chi siamo. Sintetizza la nostra evoluzione. Almeno dovrebbe.
È un fatto di odori, profumi, colori, gestualità ritmica, voci ad… alta voce, fatica, forbici e coltelli che si scambiano in segno di pace. Ogni vite che ridà frutti è una riconquista geografica, una piccola rivoluzione possibile che disegna – un grappolo alla volta – una mappa diversa per il futuro. Dopo aver quasi dimenticato la storia.
E dio sa quanto l’isola ne abbia bisogno. Di futuro, quello vero, che è presente attivo. Là dove c’era l’erba, parafrasando l’ormai inutile refrain celentanesco, ora non ci sarà solo cemento, né mattoni che gareggiano in bruttezza, ma anche un’onda di verde necessario. Perché questa non è la via Gluck della nostalgia, dell’abbandono o dell’inerte ambientalismo firmato dai culidipietra, ma è l’armonia della terra coltivata di nuovo, con strategia e sudore, idee brillanti e feeling antico. Antichissimo. Perché dopo la fuga dalla campagna e la distruttiva superfetazione del calcestruzzo è in atto la riconquista del paesaggio. E non dovrà fermarsi.
Sto correndo un rischio pazzesco, quello di sbattere nel muro della retorica. E invece no. Sto umilmente condividendo l’entusiasmo di Andrea D’Ambra, l’erede consapevole di 150 anni di epopea familiare e aziendale dedicata all’uva e al vino. Non è il solo vignaiolo ischitano, eroe non per caso, al quale andrebbe fatto un monumento. Ma lui ha tracciato la rotta per il Mondo Nuovo. Un po’ prima.
È un amico troppo vero e forte, e da così tanto, e non ho alcuna voglia di perdermi in chiacchiere. Andrea fa rinascere le vigne, una dopo l’altra, e riformula il rapporto aritmetico con l’ambiente: è una semplice e complessissima addizione alle zolle d’argilla e lapilli. Addizione di vita.
L’ultima nascita in ordine di tempo è la «Tenuta Don Silvestro», sul versante settentrionale, dominante sul vecchio percorso per Campagnano, millenario spazio agricolo prediletto da Etruschi e Romani. «Qui – spiega Andrea – ho ripreso la coltivazione del Biancolella e del Forastera in un sito viticolo di rara bellezza, che si affaccia sul Castello Aragonese». Si annusa il mare, ci si perde ai confini del Golfo di Napoli, sbirciando tra i filari o accampandosi un po’ sopra, sulla collinetta.
Sono andato a trovarlo il giorno della «Prima». La prima vendemmia compiuta dopo l’avvio del progetto, tre anni fa. Una «Prima» nello spettacolo naturale punteggiato dalle cassette rosse «D’Ambravini». Riempite e da riempire. Biancolella sul versante orientale.
Forastera dall’altra parte dei terrazzamenti. In mezzo c’è – ancora – il boschetto da caccia sormontato da pini centenari, ideato da un personaggio ancestrale: nonno Don Silvestro. Piantava anche gli alberi d’alto fusto nel cuore dei suoi poderi perché formassero un microhabitat diverso, e fossero poi accoglienti con i preziosi uccelli di passo che vi avrebbero trovato ricovero: per lui la caccia era una sorta di piacere viaggiante tra i latifondi. Misurato godimento, potente consapevolezza dell’amore per il suolo e l’aria che offre cibo e benedizioni.
«La vigna era coltivata fino a 40 anni fa e, accanto a nonno Silvestro, c’era anche Donna Teresina, che era un po’ una sorta di Calamity Jane all’ischitana», racconta con orgoglio il proprietario, l’erede di questo angolo paradisiaco, Silvestro Cenatiempo. Grazie alla sua tenacia, condivisa con la moglie Katia, ha reso possibile che il progetto si trasformasse in un uvaggio di concretezza. Buon sangue. Donna Teresina era una forza della natura: aveva una mira infallibile, e inanellava beccacce con rara efficacia. Patapam. Senza troppi pensieri. Eh! Altri tempi ed esempi.
Anche guardando a Silvestro e Teresina come perfetti numi tutelari, dopo tre anni di lavoro meticoloso Casa D'Ambra ha ridato luce alla terra, l’ha ripulita, dissodata, capovolta, piantumata compiendo l’ideale connubio tra ripresa produttiva e riformulazione paesaggistica. L’effetto è trionfale. Ma siamo soltanto all’inizio.
Già mi vedo a osservare in controluce questo nuovo cru D’Ambra, ad annusarlo il prossimo anno. Non vedo l’ora di berlo. La vinificazione in purezza delle uve allevate negli areali che conservano una indiscussa vocazione vitivinicola è una sublime faccenda che non riguarda soltanto gli intenditori, perché è un dono «pop» da condividere con il sorriso.
Il vino è un concentrato d’alta democrazia alimentare. Piacere diffuso con notevolissimo valore aggiunto. Per comprenderlo basta fare un salto tra le altre vigne recuperate finora da Andrea D’Ambra, che hanno cominciato a restituire spicchi d’identità all’isola verde, in un mix di tradizioni e lungimiranza: «Tenuta Belvedere», «Aita», «Vigna dei mille anni», e così via, citandone qualcuna.
Si va, con contentezza, a spasso tra concentrati di meraviglia possibile e vera. Si va in luoghi riesplosi di vegetazione, di qua e di là: ed è come giocare a saltellare con un solo piede tra i quadrati numerati davanti a noi, dopo avervi lanciato un sassolino. Certo, è proprio come il gioco della «Campana», il gioco per bambini più famoso del mondo che non conosce confini. Anzi li inventa ex novo. Come le vigne della felicità. Perché no?
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