Tutto iniziò dalla decisione di cambiare un pavimento. Dissestato e malridotto, perfino pericoloso per gli abitanti del Ciglio e i tanti fedeli che da altre zone dell’isola si spingono fino alle falde dell’Epomeo per onorare San Ciro, il cui culto è radicato in quel luogo da oltre un secolo.

Ma a lavori iniziati la struttura rivelò che sommarie avevano cancellato, snaturando quel piccolo tempio venuto su nell’arco di due secoli. Fu così deciso di recuperare le peculiarità della chiesa sepolte dal tempo.

Sotto numerosi strati di intonaco apposti nei decenni, venne alla luce la pietra di tufo verde, caratteristica di quella parte dell’isola e unica al mondo. Una materia prima semplice e preziosa, che ha restituito alla chiesa l’aspetto risalente alla ricostruzione successiva al devastante terremoto del 1883, che aveva colpito anche l’edificio sacro. Ampliato a partire dal 1893, fino ad assumere le dimensioni e la conformazione attuali. Era stato proprio con il tufo verde che la nuova struttura era stata via via realizzata. Di tufo erano le colonne portanti e gli archi posti sui lati dell’unica navata, severa eppure accogliente.

Il recupero del tufo verde antico ha richiesto un lavoro lungo e complesso, iniziato nel 2005, che tuttavia ha regalato all’edificio un’armonia e una “personalità” che non aveva mai possedute, a memoria d’uomo. Ciò grazie al coinvolgimento e all’adesione entusiastica di artisti e di artigiani locali, insieme all’impegno dell’associazione culturale “Ixion” e dell’allora parroco don Angelo Iacono.

Così, sono stati realizzati il pavimento, di un dolce colore naturale, sul quale spicca discretamente una decorazione in maiolica realizzata da Francesco Calise. Scolpite da Ambrogio Castaldi, sono in tufo verde le colonnine tortili e le decorazioni delle colonne con motivi che richiamano i prodotti locali della terra (il grano, l’ulivo, l’uva, gli uccelli ad indicare la cacciagione). E una grossa pietra di tufo scolpita forma pure la base per l’altare. Un altro artigiano locale, Michele Iacono, è l’artefice delle applique in ferro battuto. Per i finestroni sono stati scelti dei vetri colorati che lasciano entrare la luce e consentono di ammirare il mantello verde che monte che sovrasta la chiesta. Per il finestrone sul prospetto principale i vetri colorati, di scuola vietrese, raffigurano la Madonna Assunta, alla quale la chiesa è intitolata.

In un tondo sotto il soffitto, è dipinta, in uno stile semplice ed essenziale, un’Ultima Cena opera di due artisti ischitani contemporanei, Michele Cocchia e Antonio Cutaneo, artefici anche di un altro affresco su una parete e di un bellissimo trittico situato sull’altro lato del transetto. Di antico, nella chiesa restano un Cristo in legno e una bella tela, peraltro da restaurare, raffigurante l’Assunta, di un anonimo pittore di fine Ottocento.

La sorgente nascosta

La suggestiva chiesa nasconde nel suo interno qualcosa di veramente imprevedibile e unico. Sono la temperatura particolarmente fresca e un dolce mormorio di sottofondo che spingono il visitatore ad introdursi, attraverso uno stanzone fasciato di tufo, in una sorta di grotta naturale. Nella quale un rivo alimenta ininterrottamente una pozza d’acqua cristallina, che arriva fin dai Frassitelli, sull’Epomeo. Quella sorgente è nota da secoli e veniva utilizzata regolarmente dagli abitanti del posto per il proprio consumo e per abbeverare il bestiame. Inizialmente, quando era stato realizzato il primo nucleo della chiesa, allora dedicata a San Giacomo, la sorgente scorreva dietro il piccolo edificio, nella roccia, per poi riemergere poco più avanti in un campo, dove ancora oggi c’è chi va a prendere l’”acqua di san Ciro”. Poi, con i successivi ampliamenti della chiesa, la sorgente aveva finito con l’essere inglobata nella struttura, com’è ancora oggi, sebbene finalmente valorizzata come merita.