Il modello iniziale fu il Thesauros I, il primo edificio riportato alla luce nell’area sacra dedicata ad Hera Argiva, individuata e scavata nei pressi della foce del Sele tra il 1934 e il ’35.

Era il 1952 e nei pressi della città antica di Poseidonia/Paistom/Paestum fu riprodotta quell’antica costruzione per farne il primo, piccolo museo riservato ai reperti recuperati tra l’attigua area dei templi e il vicino Heraion. Ma il procedere dell’esplorazione dei siti e l’incremento costante delle collezioni rese necessario anche un progressivo ampliamento, con l’aggiunta a quel primo nucleo di altri spazi espositivi disposti intorno a un giardino e illuminati da ampie vetrate aperte verso l’esterno.  Da allora fino ai tempi recenti, la struttura e l’impianto espositivo sono stati protagonisti di altri adeguamenti e trasformazioni. 

Il prestigioso museo di Paestum raccoglie lo straordinario patrimonio di testimonianze di epoca greca, lucana e romana dalla città e dai siti satellite come l’Heraion e le necropoli dell’area pestana. Se la stragrande maggioranza dei reperti, a cominciare dai più famosi, proviene da sepolcri, il museo illustra nelle varie sezioni tutti gli aspetti della vita, gli usi e le credenze religiose delle popolazioni e delle culture che si avvicendarono dalla fondazione greca, avvenuta tra la fine del VII e l’inizio del VI a.C., alla presenza lucana nel IV a.C., a cui fece seguito, la conquista romana e la nascita della colonia latina dal 272 a.C. fino alla decadenza in età imperiale e all’abbandono nell’VIII d.C.

La prima sezione è dedicata alla storia del ritrovamento del sito nel Settecento, sebbene l’indagine archeologica sia quasi completamente figlia del Novecento. 

La narrazione della storia del sito inizia dagli insediamenti preistorici rinvenuti nell’area, che hanno restituito fondamentali reperti prevalentemente ceramici, in particolare dalla necropoli del Gaudo di cui il museo propone anche la ricostruzione di sepolture.

Di enorme interesse e indiscutibile fascino è la ricca esposizione di vasi greci a figure rosse e a figure nere, testimoni dell’altissimo livello artistico raggiunto dai ceramografi e ceramisti locali, tra i quali il famoso Assteas, Pithon e l’ignoto “Pittore di Afrodite”. Ai reperti ceramici delle varie fasi storiche della città, si aggiungono vasi e altri oggetti in bronzo, armi, corazze ed elmi e pregevoli gioielli. 

Una sezione ospita le decorazioni dipinte e in bassorilievo dell’Heraion alla foce del Sele. Di particolare rilievo sono le settanta metope di arenaria provenienti proprio dal Thesauros I, tra cui le quaranta più antiche risalgono al VI a.C., mentre le altre trenta sono di epoca classica e tardo classica. Alcune formano un Ciclo troiano, altre raffigurano miti con i loro protagonisti, diciotto rappresentano le fatiche di Ercole. Non mancano gli ex voto al santuario, perlopiù statuette della dea Era e decorazioni a gronde leonine.

Di grande valore è anche l’esposizione delle lastre affrescate delle tombe di epoca lucana (IV secolo a.C.). Le lastre sepolcrali più antiche recavano motivi decorativi legati a elementi vegetali oppure fasce e corone, tutti concentrati nella parte centrale. In seguito, la decorazione divenne più complessa e ricercata: nelle tombe degli uomini venivano rappresentate scene con guerrieri dipinti con corazze, elmi e armi; per le donne, si utilizzavano solo elementi decorativi, senza la figura umana. 

La parte dell’esposizione riservata alla Paestum romana illustra l’evoluzione della colonia fino all’abbandono della città attraverso varie sezioni e reperti relativi a urbanistica, monumenti pubblici, spazi sacri e spazi privati, necropoli e strutture politico-sociali.

La Tomba del Tuffatore 

Uno dei principali richiami del Museo di Paestum, famoso a livello mondiale per la sua particolarità e unicità, è la cosiddetta Tomba del Tuffatore. Si tratta dell’unico esempio di pittura parietale ad affresco di epoca greca giunto fino a noi dalla Magna Grecia e uno dei rarissimi in assoluto. Fu riportato alla luce il 3 giugno del 1968 nello scavo di una piccola necropoli, a un paio di chilometri a sud di Paestum. Autore dello stupefacente rinvenimento fu l’archeologo Mario Napoli, che nel 1867 aveva iniziato a esplorare i siti delle necropoli intorno alla città e in particolare quella della località Tempa del Prete, utilizzata tra la fine del VI e l’inizio V secolo a.C.

Durante le operazioni di scavo, apparve pressochè intatta una tomba formata da lastre della tipica pietra calcarea pestana. Solo la lastra che fungeva da coperchio presentava una frattura verticale e un’altra in uno degli angoli. Ma nel sollevarla, apparve un interno affrescato su tutti i lati. E anche la lastra superiore recava una pittura, la più particolare tra tutte, che ne avrebbe decretato la fama successiva e avrebbe ispirato il nome con cui quel sepolcro sarebbe stato riconosciuto per sempre.

Priva di fondo, appoggiata direttamente sul terreno calcareo, la tomba conteneva i resti di un giovane e un corredo ridotto nel numero dei reperti, ma di qualità notevole: una lekythos attica a figure nere e parti di due aryballoi di alabastro, oltre a frammenti di carapace di tartaruga, collegati ad una lira. Probabilmente il giovane defunto, appartenente ad una famiglia in vista della città, aveva coltivato la passione per la musica. Grazie ai vasi, è stato possibile datare la sepoltura tra il 480 e il 470 a.C., cioè quella che dal punto di vista artistico viene identificata come epoca severa.

Le quattro lastre laterali del sepolcro rappresentano scene di un simposio in cui la musica è evocata nella presenza di strumenti musicali e nella reazione di alcuni dei dieci simposiasti, collocati a coppie o singolarmente sui klinai, i classici lettini da banchetto, vicino a tavoli bassi abbelliti e recanti delle kilikes, le coppe da portata. Altre coppe compaiono tra le mani di alcuni partecipanti e mentre uno di loro ne fa uso per il gioco del kottabos, largamente praticato nelle occasioni conviviali da Greci ed Etruschi. I simposiasti bevono, suonano il diàulos (flauto) e la lira, dialogano e si scambiano effusioni. Sulle lastre laterali, più corte, sono rappresentati, da una parte, un efebo nudo che attinge il vino da un grande vaso posto su un tavolo adorno di festoni, e dall’altra, una fanciulla che suona un àulos (un flauto), seguita da un giovane che danza e da un anziano barbuto, identificabile con un paidagògos, un maestro.

Nella lastra più famosa, la superiore, cambia completamente la scena: protagonista è un giovane uomo, nell’atto di tuffarsi verso una superficie che può essere identificata con il mare. La scena è composta anche da due alberi e da una struttura che ha contribuito non poco al dibattito sul significato e l’intento comunicativo dell’opera. La versione prevalente tra gli studiosi è quella che identifica nel tuffatore il defunto che lascia la vita per passare nell’aldilà. E la struttura alle sue spalle potrebbe fare riferimento alle colonne d’Ercole, rafforzando il messaggio del tuffo verso l’ignoto. Secondo una recente reinterpretazione, invece, la pittura non nasconderebbe alcuna implicazione ultraterrena né significati filosofici o rituali, ma raffigurerebbe il tuffo di un giovane che compie una prova di coraggio, magari legata al passaggio all’età adulta. 

In base alle differenze riscontrate nelle pennellate, l’opera sarebbe riconducibile a due autori, uno più padrone della tecnica e un altro più acerbo. Per realizzare il dipinto, avrebbero utilizzato una tecnica a tempera, partendo da un disegno con la sinopia, ovvero ocra rossa, sullo strato di stucco sottile, per poi graffiare e fissare sul supporto il disegno preparatorio. Il soggetto simposiale abbastanza diffuso è ispirato dai modelli della pittura vascolare coeva. Mentre il dipinto del tuffatore è decisamente raro in ambito greco, così come la scelta della decorazione pittorica di lastre sepolcrali destinate a non avere un pubblico. Un’opera non straordinaria dal punto di vista artistico, ma che rappresenta un unicum tale da giustificarne l’immenso valore storico e culturale.