MANGIARE/BERE
nell'Area Flegrea
A tavola con il mito, completamente integrati nell’atmosfera dell’otium romano? I cuochi dei Campi Flegrei hanno saputo rinnovare i fasti dei gourmet imperiali
Sono ancora cozze, vongole, ostriche, pesci pregiati ed erbe aromatiche, con legumi antichi come le lenticchie, a trionfare nel menu, prevalentemente di mare, che si conclude con un corollario di saporite e croccanti mele annurche, originarie proprio della zona puteolana. Da dove provengono le erbe per i liquori e la frutta per le marmellate artigianali a chilometro zero. Per il vino, c’è l’imbarazzo della scelta. Andare per cantine è infatti un’esperienza affascinante, nel cuore della DOC Campi Flegrei, che si riassume nella storia essenziale di due vitigni, la falanghina e il piedirosso, coltivati in contesti paesaggistici davvero speciali. Già gli intellettuali romani, da Catone a Columella, descrivevano con grande chiarezza le peculiarità organolettiche dei vini del territorio. Una precisa identità millenaria, che ben sanno esprimere le aziende che firmano le bottiglie di oggi. Basti pensare alla falanghina, che deve il suo nome alla «falange», cioè al palo di sostegno intorno al quale avviene il progressivo sviluppo della vite: è la caratteristica della viticoltura flegrea con il sistema di allevamento a «spalatrone».
Tra i laghi e il mare la culla dei mitili flegrei
Nell’area flegrea la storia dei mitili, oggi certificati dagli impianti di stabulazione, cominciò quando la presenza di fumarole e di acque calde termali che riemergevano un po’ ovunque, ben conosciute in epoca romana, accese la luce nella mente geniale di Sergio Orata che, nel lago di Lucrino, realizzò il primo impianto per la coltivazione delle ostriche. D’altra parte, proprio l’effigie dell’ostrica era presente in buona parte delle monete cumane. Ma i laghi furono sfruttati in modo intensivo. Poi, dopo un lungo periodo buio, bisognerà aspettare Ferdinando IV@ di Borbone che pensò di rilanciare gli allevamenti nel Fusaro: in breve tempo ci si accorse però che ostriche e cozze insieme erano incompatibili. Così l’allevamento di cozze si trasferì a Capo Miseno e dintorni: i pescatori della zona le mangiano crude con la mollica di pane e un po’ di succo di limone spremuto fresco. Un classico. Di recente, va detto, nel Fusaro è stata riorganizzata la produzione di cozze con buoni risultati. Il processo di crescita viene controllato attentamente in ogni sua fase e si prolunga da ottobre, dopo l’inseminatura, fino a maggio, quando le cozze sono ormai pronte per la vendita e per terminare il loro percorso in una profumatissima «impepata», in una zuppa di pesce, o in abbinamento con la pasta.
LA RICETTA
Impepata di cozze
In principio furono i mesi senza la «R» nel nome che, secondo la tradizione, sono quelli da preferire per gustare al meglio le cozze. L’impepata è semplicissima. Ovviamente le cozze vanno spazzolate e pulite per bene poi, in un tegame, con un po’ d’aglio a spicchi, una volta scaldato l’olio, si aggiungono i frutti di mare. Si copre con un coperchio e si lascia per qualche minuto a fuoco vivace fino a quando le cozze si saranno aperte. A fine cottura si aggiunge il pepe nero macinato fresco e un po’ di prezzemolo tritato (se piace). Far mescolare il sugo e le cozze, agitando il tegame, e servirle ben calde.
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