“A riempire una stanza basta una caffettiera sul fuoco… (Erri De Luca)
All’inizio, non era piaciuta proprio. Quella novità arrivata chissà da dove, non aveva fatto breccia nei desideri né dei signori né del popolo...
che per secoli avevano ignorato l’esistenza di quegli strani chicchi di una indefinita origine orientale, forse noti, invece, nell’ambito della Scuola Medica Salernitana. E, probabilmente, anche alla corte aragonese, considerato che intorno alla metà del Quattrocento le navi del regno frequentavano regolarmente i porti del Mediterraneo orientale e Napoli intratteneva rapporti commerciali intensissimi con quelle terre. Comunque fosse andata, sta di fatto che quel prodotto e la bevanda che se ne ricavava erano rimasti sconosciuti ai più per quasi due secoli.
Una data che si tramanda in questa storia è il 1614, l’anno del trasferimento a Napoli del musicologo romano Pietro Della Valle. Dalla città di Partenope, di lì a poco, partì per un viaggio in Terrasanta, dove rimase per dodici anni, dedicati anche ad approfondire la conoscenza della popolazione locale e delle sue tradizioni. E lì fece esperienza, raccontandolo agli amici napoletani, di una bevanda nera, il khave, che si otteneva da chicchi messi a bollire in bricchi da cui il liquido veniva versato in piccoli bicchieri per essere bevuto dopo il pranzo. Nel tornare a Napoli, Della Valle portò con sé i chicchi orientali, per farli conoscere in città. Ma senza suscitare alcuna particolare curiosità o interesse.
Da Vienna a Napoli, la moda dei nobili
Diversa fu la loro sorte in altre città d’Europa. Dalla fine del Seicento, la bevanda ormai da tutti conosciuta come caffè iniziò a diffondersi e a conquistare sempre nuovi estimatori. Tanto che si aprirono dei locali solo per poterla bere intrattenendosi con amici e conoscenti. Venezia, per prima, ebbe una bottega del caffè. Ma la città che vide moltiplicarsi velocemente le caffetterie fu Vienna, dove la bevanda divenne di tendenza, come diremmo oggi. E il successo viennese si riverberò a Napoli ad opera della regina Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria, che arrivò a Napoli come moglie di Ferdinando IV nel 1768 e portò con sé anche la moda del caffè. Che si diffuse ben presto tra i nobili. A consacrare l’uso della bevanda anche nelle grandi occasioni fu un sontuoso ballo organizzato nella reggia di Caserta nel 1771, interamente dedicato al caffè. A servirlo in quell’occasione, per la prima volta, furono domestici che indossavano giubbe e cappellini bianchi. E sempre Maria Carolina diffuse a corte l’abitudine di accompagnare al caffè il kipferl, un dolce a forma di mezzaluna, diffuso in Austria Ungheria, farcito con crema e amarena. Praticamente, l’antenato del cornetto, per un mix destinato a diventare la colazione tipica a Napoli e nel resto d’Italia.
La bevanda del diavolo divenuta rito collettivo
Eppure, per quanto i nobili si fossero appassionati, il popolo continuava a non apprezzarlo. Anzi, quel colore nero e la provenienza orientale lo avevano fatto identificare come “nettare del diavolo”, addirittura iettatorio, dunque assolutamente da evitare. E la Chiesa stessa non lo approvava e ne scoraggiava l’uso. Dovette passare altro tempo, fino ai primi dell’Ottocento, perchè i napoletani si appassionassero a quella che sarebbe diventata la loro bevanda preferita. E contribuì anche una canzone di Nicola Valletta, oltre all’autore del Cuoco galante, il cuoco e gastronomo Vincenzo Corrado, che la sdoganò definitivamente.
Una svolta nella diffusione del caffè arrivò con l’introduzione in città della caffettiera che oggi è ancora definita “napoletana”, ma che fu inventata e brevettata nel 1819 da uno stagnino parigino, Morize, ideatore del sistema a doppio filtro che soppiantò l’infusione alla turca. La caffettiera, originariamente di rame, poi di alluminio, fu chiamata coccumella e appassionò il popolo al caffè, consumato rigorosamente in compagnia, come rito di accoglienza e di condivisione. Lo si beveva anche in strada, grazie agli ambulanti che giravano con il caffè, le tazze, una caraffa con il latte e una scorta di zucchero. Le caratteristiche grida richiamavano l’attenzione degli appassionati, sempre più numerosi, della tazzulella ‘e cafè, che poco a poco assumeva caratteristiche sempre più partenopee nelle modalità di consumo e anche nel gusto della bevanda. Intorno alla metà dell’Ottocento si diffuse anche la pratica del caffè sospeso, pagato in anticipo per chi non potesse permetterselo. Poi, nel 1860, anche Napoli ebbe il suo Gran Caffè, il primo in città, nella centralissima piazza San Ferdinando, al piano terra del Palazzo della Foresteria, dov’è ancora oggi con il nome di Caffè Gambrinus.
Un secolo dopo la coccumella, ai primi del Novecento, entrò in scena la rivoluzionaria macchina per l’espresso, che si accompagnò ad una nuova tostatura, in linea con il gusto dei napoletani, capace di esaltare al massimo l’aroma del caffè, dal colore marrone altrettanto intenso. Come il “manto del monaco”, avrebbe spiegato in seguito Eduardo, nel celebre monologo della commedia “Questi fantasmi”, in cui il protagonista Pasquale svela i suoi segreti per un perfetto caffè fatto in casa. Intanto, altre regole si erano affermate insieme all’espresso, da servire cremoso, rigorosamente in tazzina di ceramica, all’interno bianca e senza scritte, riscaldata e non umida, e accompagnato da un bicchiere d’acqua, da bere prima, per preparare la bocca a godere appieno del gusto del caffè. Altre abitudini, tutte partenopee, a sancire l’amore ormai indissolubile tra i napoletani e la bevanda venuta da lontano e divenuta specialità cittadina.
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