Se però la scelta cade e accade in una miniera a cielo aperto di bellezza pura qual è il Castello Aragonese di Ischia – che l’Unesco non ha ancora inserito nel patrimonio dell’umanità, e per questo dovrei forse scandalizzarmi – allora si ha il massimo grado di potenziale espressivo.
Il risultato è un paradigma riscritto definitivamente da qualche anno dall’Associazione degli Amici di Gabriele Mattera: non si tratta solo di «ospitare l’arte» con la lodevole firma d’artifici tecnici e invenzioni d’allestimento in un contesto così prestigioso. C’era da sviluppare una consapevolezza antica: qui una mostra «si fa» davvero progressivamente, con intuizioni brucianti e si compie toccando vertici non progettabili a priori. Inedita, divinamente non replicabile. Nicola e Cristina Mattera lo sapevano, sapevano che era una missione complessa, ma vivaddio ci hanno fatto un regalo pazzesco. Ogni volta la sorpresa è una summa autentica di piacere.
Credetemi, non c’è paragone. L’opera e le opere si generano ex novo nell’Opera Maggiore, il Castello. A ogni passo s’innesca un detonatore estetico, ogni battito di landscape collinare proiettato dall’isola grande o incursione luminosa dal mare o ombra pomeridiana o fraseggio architettonico delle pietre vulcaniche; qualsiasi picco o cupola o bacio di stucchi o simbolo di storie o spicchio di rovine o splendore restaurato contribuisce a minare, far esplodere e contaminare il processo creativo. E la dico tutta: vale comunque per il teatro, la musica, un libro, un convegno, una passeggiata, un caffè. Qualsiasi esperienza possa toccarci. Sto evocando il vitalismo? Può darsi.
L’epifania infracastellana ha una genetica e una cinetica impossibili altrove.
Ma vado al dunque, ecco la conferma attesa, il caso eccellente di «Klepsydra», titolo felicissimo per il nuovo progetto di valore internazionale degli Amici di Gabriele Mattera, che ha per protagonisti Thomas Lange (Berlino, 1957) e Valentina Palazzari (Terni, 1975); con la partecipazione di Mutsuo Hirano (Hyogo, 1952), la cura di Davide Sarchioni e la collaborazione di TerraMedia. Sarà visitabile fino al 19 settembre (il catalogo sarà pubblicato nel 2022).
Ho un concentrato di certezze davanti. Il Castello è femmina e partecipa, partorisce e lascia per sua Natura ripartire (distribuire, dividersi), e poi partire le installazioni, gli interventi umani, le partiture. Questa convinzione, che condividevo con minuziosa umiltà e in nuce con Gabriele Mattera già qualche decennio fa (e un po’ ne scrivevo, qua e là), è diventata matura ed entusiasmante. Lo ripeto, si è evoluta grazie al coraggio e alla intelligenza di Nicola e Cristina, eredi e testimoni di una dimensione che non è fisica, nel senso diacronico; né solo ideale, in quanto aspirazione all’oltre sospeso. E però ci stanno di casa, ogni volta la dimora è ricostruita, rinasce, si eterna, si affida. Che sfida.
Il Castello non è un’allegoria, è vivo, aperto, accogliente. Ed è destinato sempre più a non monumentalizzarsi.
Del resto Madre Castello – durante la gestazione – s’imprime nell’Arte-in-contemporanea, con mutazioni del corpo e crescendo di senso, si dilata e contrae. Gli artisti esistono agendo e sono concorrenti, perché corrono insieme percependo la libertà statutaria del poiein - qui e ora, chance unica per loro! – e cercando istintivamente la folgorazione che sta per avvenire ed è il tra-guardo.
Intanto il proprio background è ridiscusso, si scuote, affonda e riemerge un po’ leopardianamente addirittura. Sembra curioso, eh?; ma la meraviglia leva il fiato agli autori-spettatori quando si piazza l’ultimo pezzo, anzi no, perché si smonta ancora e si riformula, cambia form/azione. Se finalmente si fissa, è quasi un’illusione ottica: continuerà a muoversi senza alternative perché le prospettive – qui - sono pressoché all’Infinito.E ci risiamo con Lange-Palazzari-Hirano. Con semplicità priva di pre-giudizi mi donano un altro esempio di Ecologia della Mente così prezioso e raro, e con il contributo determinante dello storico e studioso Davide Sarchioni che mi ha fatto sobbalzare di gioia per l’efficacia dell’intervento introduttivo. Ha schiaffeggiato quelli che vorrei definire gli «ismi engagé» dell’intellettualismo manieristico. Li ritroviamo spesso in ambiti prevalentemente urbani. Questa è una lezione di classe, asciutta, essenziale. Di poche parole.
Direi che Klepsydra-Clessidra ha una virtù epocale, si traduce nell’onomatopea del silenzio con il suo impalpabile «ffffrr» che ipnotizza o fa sognare. Diversissimo nella ripetibilità. Sta al confine del possibile, una ir-realtà fluttuante dove c’è l’aspettativa di una voce. La nostra. Prima un vagito. Più voci. Discorsi che riempiono, nominano le cose. E danno vita al mondo.
Ciò che vediamo e rivediamo, dunque, sono le metamorfosi del Castello che conosciamo. Siamo obbligati a mettere da parte la memoria dell’ecosistema complesso che amiamo e frequentiamo dall’infanzia. Rivoluzioniamo gli schemi dell’abitudine stringendo un patto con i reinventori dei luoghi: l’ho detto alla Palazzari, ammirato dalle «spine» radianti e appese nella cattedrale; e l’ho ridetto a Sarchioni, durante la soirée che mi ha emozionato assai perché ho ritrovato le fascinazioni che pulsavano quando c’era Gabriele a plasmare gli eventi.
E io ero accanto a lui, sulle scale…
Guardando negli occhi – è più forte con la mascherina! – Nicola e Cristina, ho avvertito i brividi dell’unicità d’occasione. E se ci fosse bisogno di conferme, che dire della «cantata spirituale» nella Cripta – il suo habitat perfetto, visti i trascorsi religiosi (giapponesi) giovanili – che ci ha donato quel simpaticone di Mutsuo Hirano, autodidatta e artefice di argille cotte in forni viterbesi e provocatore di connessioni esaltanti?
Rosanna è stata bravissima a cogliere l’attimo, a registrare l’improvvisata performance.
Elogio della leggerezza. Mi sento a casa. I pezzi di terracotta di Mutsuo, maschere d’anime viaggianti, scandiscono gli altari e gli affreschi, assorbono l’eco del canto sacro, lo restituiscono depurandolo di drammaticità. Lo sa perfettamente, sornione. E ci gioca.
«Gli artisti si interrogano sul presente, lo leggono – ha detto Sarchioni – ma senza compartimenti stagni».
C’è il passato e si attraversano misteri e parole sul tempo: quest’ultimo può sovrapporsi attraverso il lavoro artistico che ha fatto i conti con il luogo, «capovolgendo punti di vista e visioni. L’idea era trovare momenti di dialogo tra le differenze, ma con sensibilità in comune».
Mentre Hirano, facendo leva sulla iconografia classica realizza ponti tra oriente e occidente; poi si delinea una polifonia, con la connotazione di una doppia polarità tra Lange e Palazzari, tra lo spazio e la sua storia, certificando la filosofia della clessidra.
Nella chiesa settecentesca dell’Immacolata, punto cruciale del percorso espositivo, in alto c’è la vela metallica – vi aleggia l’icona di san Giovangiuseppe della croce? - ma laicamente impalpabile di Thomas Lange.
Difficile arrampicarsi. Attende che i visitatori riempiano il vuoto apparente tra su e giù.Intanto, in basso, a catalizzare le energie e a confezionare l’immaginario, c’è Valentina Palazzari con i cerchi concentrici di cavi elettrici e colorate catene recuperate nel mare di Ischia Ponte, sistemate sul pavimento, a tappeto. Sarà mai il prodotto di una grande goccia caduta nella metafora di una baia piatta, piovuta dal cielo interiore e esponenzialmente allargatasi? Peserà un accidente, eppure si comporta come un fluff gigantesco. Quello della clessidra. Poi sembra sollevarsi dal suolo dal centro, per attrazione, sviluppandosi come un cono che intende incontrare l’installazione di Lange.
Tutto continua a succedersi più avanti. Nel convento di Santa Maria della Consolazione fino alle rovine della Cattedrale dell’Assunta e nella Cripta. Così gli avvolgimenti spaziali di Valentina, o i materiali di recupero che Thomas rimodella nelle nicchie prima compaiono, poi svaniscono. E appear-disappear è il refrain che mi appartiene: inno alla sottrazione di peso di cui vado matto.
«C’è tutta la fragilità della presenza, la mutevolezza della comparsa e della scomparsa», dice Davide. E dovrei abbracciarlo.
«La clessidra – ha scritto - è un riferimento all’antico strumento di misurazione che restituisce l'immagine simbolica del tempo e consente la verifica tangibile del suo trascorrere. Simboleggia l’unione tra passato e futuro, che convergono al centro per esprimere l’idea di un presente inafferrabile e in continuo divenire, dato dal continuo fluire della sabbia o dell’acqua. All’artista il compito di indagare la “forma” del tempo presente, attraverso la forza visionaria del gesto e del segno che trasforma lo spazio e sovverte lo stato delle cose per dare avvio a un nuovo corso degli eventi».
Imperdibile autenticità.
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